Da qualche giorno sembra sia richiesto a ciascuno di noi di svoltare le pagine della fase uno, iniziando a dar forma alla cosiddetta fase due. Una fase che molte volte abbiamo nominato, desiderato, immaginato. Una fase che aveva il sapore della libertà, della possibilità e della ripartenza. Per alcuni persino della normalità. Ma, ora che stiamo iniziando a testare questa nuova condizione, non ci avvertiamo quieti, anzi.

Le prime pagine sono state profondamente perturbative, ci hanno costretto a fare i conti con l’incertezza, con la responsabilità individuale, ancor prima della libertà, e con il desiderio della fisicità. Ci hanno restituito il valore del tempo, la capacità di cogliere nuove sfide come quella del digitale, ma anche la paura dell’ignoto, ancor di più quando essa è collettiva.

Abbiamo appreso quanto la paura sia uno stato di attivazione utile quando abbiamo la percezione di trovarci davanti ad un pericolo, ma anche quanto sia uno stato di tensione, che è faticoso da mantenere per lungo tempo. Così, dopo un momento di scorpacciate di informazioni, partecipazioni a qualsiasi tipo di attività virtuale, lunghe videochiamate ed esperimenti culinari, abbiamo avuto quasi tutti la sensazione di ritrovare il nostro equilibrio. Ci avevano richiesto di cambiare le nostre abitudini, e, a fatica, ciascuno di noi è riuscito a trovare il proprio modo di scoprire il potenziale di tale situazione. Anche solo stando dentro casa.

Oggi, seppur abbiamo guadagnato nuovi spazi di libertà, sembra essersi diffusa la “paura del fuori”. Dopo esserci adattati tra le mura della nostra abitazione, ancora una volta, ci riassale l’ansia per l’ignoto e la diffidenza verso l’altro. Per molti questo timore non riguarda soltanto il contagio, quanto piuttosto il ritorno al sociale. Se prima sembrava esserci una spinta verso l’esterno, ora sembra sempre più diffusa una tendenza al dentro. Un dentro che sa di sicurezza, familiarità e introspezione.

Ci sentiamo più fragili e temiamo l’incontro con il collega, con il passante, ma anche con la nostra famiglia al ritorno dal lavoro.

Il lavoro. Dopo esserci adattati a nuove modalità e sperimentato diversi strumenti digitali, abbiamo ora la sensazione di non avere più il controllo del nostro tempo. Non esistono pause, non esistono orari. A fatica riconosciamo il sabato e la domenica. E, ancora una volta, in questa fase due ci è richiesto di considerare non solo la salute, ma anche il nostro ambito professionale, che però vediamo pericolante, sospeso e incerto. Così, quella sorta di sospensione delle prime pagine che ci aveva consentito in qualche modo di immaginare, sperare e posticipare, ora è sostituita, per molti, da costrizioni immobilizzanti. E parte della nostra identità sembra essere messa nuovamente in pausa.

La pausa che difficilmente avevamo intravisto nella fase due, ma che oggi, in maniera manifesta, ci sta richiedendo un’ulteriore fiducia, un’ulteriore responsabilità, un ulteriore sforzo nel riuscire a stare accanto mantenendo le distanze, un ulteriore coraggio nel ri-costruire un lavoro, un’ulteriore ri-organizzazione dentro e fuori di noi. Una richiesta importante, che non è soltanto fisica ma soprattutto psicologica.

Foto di Sarah Baldo