La  schiacciante vittoria nel caucus del Nevada lo scorso fine settimana sembra, nella sovraffollata corsa alla nomination democratica, mettere il senatore del Vermont Bernie Sanders da solo contro tutti. E lo si vedrà già a partire dalla prossima tappa delle Primarie, in programma il 29 febbraio nel Carolina del Sud, dove il Senatore navigherà in acque per lui incerte, quelle del voto afroamericano, dopo aver sedotto una buona percentuale dei giovani e della popolazione ispanica. E proprio in Carolina del Sud, nel 2016, Sanders perse in maniera schiacciante le Primarie contro la sua avversaria Hillary Clinton.

Gli avversari

Sanders appare già essere il leader della corsa per la nomination democratica alla Casa Bianca. Ha vinto il voto popolare nelle prime tre primarie, cosa che nessun candidato democratico aveva mai raggiunto prima nella storia e il suo vantaggio sui rivali più vicini, i centristi Joe Biden e Michael Bloomberg, attualmente supera i dieci punti. E proprio in Joe Biden il senatore del Vermont  ha il suo avversario più ostico in Carolina del Sud. L’ex vicepresidente di Barack Obama, che finora ha ottenuto risultati deludenti, è in testa ai sondaggi con il 24,5%, di 3 punti percentuale sopra Sanders che lo segue col 21,5%, mentre Elizabeth Warren e Pete Buttigieg se la giocheranno per la quarta posizione dietro al  milionario Tom Steyer, che è posizionato idealmente al terzo posto. Pete Buttigieg, nonostante i buoni risultati nelle prime elezioni, stenta a decollare nei sondaggi nazionali e prova a correre ai ripari, mettendo in guardia l’elettorato contro il suo principale rivale: «Prima di affrettarci a nominare il senatore Sanders nell’unica possibilità di far cadere Trump, studiamo bene le conseguenze», ha dichiarato l’ex sindaco di South Bend (Indiana), che si pone su una linea centrista e molto più liberale del quasi ottantenne Sanders che «crede in una rivoluzione ideologica inflessibile, tale da respingere la maggior parte dei democratici e la maggior parte Americani».

Tra le proposte di Bernie Sanders che i suoi avversari considerano troppo radicali, però, c’è soprattutto la protezione sociale per tutti, che dovrebbe essere votata dalla Camera dei Rappresentanti e quindi dal Senato, anche se quest’ultimo è ancora prevalentemente repubblicano e potrebbe bocciarlo. Sanders ha ottenuto fino ad ora gli endorsements di Randi Weingarten, Presidente dell’American Federation of Teachers, Bill Perry, esperto di affari internazionali ed ex Ministro della Difesa durante la presidenza di Bill Clinton, e Chuck Schumer, capo della minoranza democratica al Senato. A favore di Biden, invece, ci sarà probabilmente il sostegno del numero tre dei Democratici alla Camera dei Rappresentanti, Jim Clyburn, che galvanizzerà il voto nero attorno all’ex vicepresidente. A dire il vero Clyburn ha dichiarato che farà sapere chi sosterrà solo dopo il dibattito democratico in programma oggi a Charleston, ma ha sottolineato che il nome non coinciderà con nessuno dei vincitori di Iowa, New Hampshire o Nevada. E cioè, rispettivamente, Bernie Sanders e Pete Buttigieg. Andando per esclusione, quindi…

Le armi di Sanders                                     

Il punto vero, tuttavia, è che Sanders in realtà non è un democratico. Si è registrato come indipendente e soprattutto si è autodefinito ideologicamente un “socialista democratico”. Un concetto che negli Stati Uniti in generale si fa fatica a decifrare, anche se il senatore per il Vermont si colloca nel solco della tradizionale socialdemocrazia europea. E non a caso non c’era mai stato in precedenza un candidato che si definisse così tanto apertamente “socialista”. D’altronde, si sa, la parola “socialista” genera non pochi malumori negli USA, soprattutto – paradossalmente – all’interno del Partito Democratico, che più che agli estremi tende da un po’ di tempo a guardare al centro. Lui, invece, ha sempre guardato a politiche socialdemocratiche di ampio respiro basate su un’espansione della presenza del settore pubblico nell’economia, sulla lotta alla disuguaglianze, sugli investimenti infrastrutturali e sul rilancio del welfare a sostegno dei cittadini più svantaggiati.

Il che, tradotto, significa anche una certa rigidità ideologica che per il gotha dei Democratici significa anche per Trump la garanzia di vincere ancora, soprattutto grazie al voto ottenuto in quelle aree della classe media che “galleggia” alla periferia delle città, ovvero dove realmente poi si decidono le elezioni. È vero anche che, in un periodo di polarizzazioni estreme (e in fondo Trump ha vinto quattro anni fa basandosi su una comunicazione di tipo “estremo”) un “duro-e-puro” come Sanders risulta per molti il candidato ideale, l’unico che può davvero contrastare il tycoon repubblicano. Il quale, durante quest’ultimo mese, ha visto la sua popolarità attestarsi attorno al 49% dei consensi: è una percentuale per certi aspetti bassa, se contestualizzata all’interno di un’economia florida e in piena occupazione come quella degli States, ma rimangono comunque i dati più alti da quando Trump è arrivato ​​alla Casa Bianca. E questo rende, se vogliamo, ancora più arduo lo sforzo dell’opposizione per riuscire a conquistare nuovamente la Presidenza. Proprio per questo i Democratici del centro, quelli considerati più liberal, temono con Sanders come probabile candidato non solo di perdere le prossime elezioni di novembre, ma anche la Camera dei rappresentanti, che al momento controllano.

La “purezza ideologica”, croce e delizia

Sanders sbandiera spesso la sua presunta “purezza ideologica”. Non a caso è il beniamino dei giovani, nonostante i suoi 78 anni che non gli restituiscono certo un’immagine a loro vicina. Domenica, in un’intervista al programma 60 Minutes della rete televisiva della CBS, ha dichiarato di essere «totalmente contrario alla natura autoritaria del regime cubano, ma non ritengo sia giusto affermare che sia tutto male in quel paese. Castro, ad esempio, ha creato un programma di alfabetizzazione di massa a Cuba senza eguali». Certo, Sanders avrebbe potuto usare lo stesso argomento per lodare la dinastia nordcoreana del Kim – la più longeva nel mondo comunista, anche al di sopra di quella dei Castro – poiché, nei suoi sette decenni al potere ha eliminato l’analfabetismo del Paese asiatico, anche se la libertà di scegliere cosa leggere, si sa, non esiste né a Cuba né ovviamente in Corea del Nord, perché i governi impongono alla popolazione determinate letture e soprattutto paventano il carcere per chi non si adegua a questo tipo di regime. Al contrario Sanders ha voluto tracciare una linea molto chiara tra le sue posizioni e quelle, ad esempio, del presidente Donald Trump, la cui vicinanza a dittatori come il nordcoreano Kim Jong-un, il russo Vladimir Putin o l’egiziano Abdel Fattah Al-Sisi è conclamata. «A differenza di Donald Trump, non dico che Kim Jong-un sia un buon amico e non scambio lettere d’amore con un dittatore omicida. E anche Vladimir Putin non è un mio grande amico», ha affermato sarcasticamente in più occasioni il senatore.

Ma non è l’unica linea di demarcazione che Sanders il puro tende a mettere davanti a sé. Poche ore dopo l’intervista rilasciata a 60 minuti, infatti, ha pubblicato un “tweet” in cui criticava l’AIPAC, la principale organizzazione della lobby pro-israeliana, la Commissione per gli Affari Politici Americano-Israeliano, che ha accusato di «offrire una piattaforma ai leader che difendono l’intolleranza e il razzismo e si oppongono ai diritti fondamentali dei palestinesi». Sanders, che (lo ricordiamo) è ebreo, si è quindi posto contro una delle lobby più influenti negli Stati Uniti proprio alla vigilia, fra l’altro, dell’Assemblea annuale dell’AIPAC. Non è difficile immaginare, a questo punto, che difficilmente otterrà l’appoggio dell’elettorato ebraico, abituato a votare democratico in percentuali che variano tra il 65% e il 90%. Una scelta ideologicamente coerente, probabilmente, ma forse non proprio vincente.