Poco più di ventuno anni fa ero sul divano di casa a guardare la televisione quando, tra le notizie che scorrevano sul sottopancia della trasmissione “Verissimo”, appresi della scomparsa di Fabrizio de Andrè. Per me, che all’epoca ero un ragazzino di quindici anni, De Andrè era (anche) quello che diceva le parolacce nelle canzoni. Ricordo, però, che quel genio, al di là di questo aspetto “goliardico” agli occhi di un ragazzo non ancora maturo, mi aveva già appassionato con tante delle sue canzoni. L’anno prima – era il 1998 – il tour “Anime Salve” fece tappa a Verona, al Teatro Filarmonico, nell’ambito della rassegna “Cantautori DOC”. Una rassegna che, quell’anno, ospitava, tra gli altri, Paolo Conte, Francesco de Gregori e Lucio Dalla. A casa mi venne concesso il privilegio di scegliere di vederne uno. Tra le “parolacce”, forse più per una questione di pudore verso mio padre che mi avrebbe accompagnato – sentire il cantante “dire certe cose” a fianco del proprio padre a 15 anni mi sembrava strano -, scelsi Lucio Dalla.

De André – Foto di Guido Harari

Scelsi quello del “Caro amico ti scrivo”, di “Santi che pagano il mio pranzo…” o di “Dice che era un bell’uomo” ma soprattutto quello del balletto di “Attenti al lupo”. Poi Dalla, quell’anno, aveva scritto capolavori come “Tu non mi basti mai” e la canzone omaggio ad “Ayrton”, campione che aveva commosso tutti noi, “rimbalzando sulla curva” del circuito di Imola. Insomma, dopotutto ero felice di ascoltare quelle canzoni così belle e orecchiabili delle quali ancora non potevo capire tutto (come era Faber). Fu lì che scoprii che anche Dalla, a volte, utilizzava vocaboli irriverenti e diretti, come in “Disperato erotico stomp”. Poco dopo, nell’ambito della stessa rassegna, ci fu il concerto di De André, che poi morì alcuni mesi dopo. Lucio ebbi modo di ascoltarlo dal vivo altre volte ed ebbi pure l’occasione di conoscerlo brevemente in due occasioni divenendone “quasi un amico”. Lucio il cantante con il quale ho parlato e che mi ha fatto piangere al funerale a Bologna, in una piazza strapiena immobile, scioccata, come avvolta da spesse pareti di insonorizzazione. Fabrizio, invece, è colui che non ho mai incontrato. Quel concerto rimane per me un mistero. Non averlo visto dal vivo ha trasformato il “mio” De Andrè in un mito che sembra non fare parte del mio tempo.

Oggi, che avrebbe compiuto ottant’anni, Fabrizio continua a emozionare e stupire intere generazioni, seppur in maniera diversa. Chi ha vissuto il distacco si domanda spesso cosa avrebbe raccontato, mentre chi si avvicina a lui per la prima volta si ritrova in un mondo variopinto, difficile da definire e da raccontare. Un panorama che, ogni volta lo si affronta, offre spunti e sensazioni sempre nuove. Luoghi, persone e sentimenti permeati dalle sonorità contaminate del Mediterraneo che si estendono alle culture del mondo, caratterizzando un’opera poetica e musicale senza pari. Come per la parola – dalla quale sono nati i personaggi e le storie che noi tutti conosciamo – la musica, con le sue sonorità, ha altrettanto raccontato la cultura dei popoli: colori, profumi e sapori emersi dal ritmo nelle sue influenze sonore dal Medio Oriente all’America.

Situazioni di difficoltà che all’epoca apparivano distanti sono state portate allo stesso piano quotidiano, dell’ordinario. Così Fabrizio – menestrello della società reale – ha raccontato storie di “puttane”, “nani” e transessuali, in un vortice di umanità, che è la stessa nella quale vivono nobili, borghesi e “ultimi”. Se si potessero raccontare in sceneggiatura le canzoni di Fabrizio – senza rischiare di essere banali – si vivrebbero gli stessi contrasti dei film di Özpetek: contrapposizioni sociali e culturali rese ordinarie, affreschi contemporanei delle contraddizioni e dei segreti dell’Uomo. Una laicità infinitamente cristiana, questo è il suo racconto più genuino. Una laicità che non giudica ma che accoglie chiunque, facendo proprio il messaggio di Cristo. Una società che non abbandona gli ultimi “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo”. Come Fabrizio riteneva che Gesù Cristo fosse stato il più grande rivoluzionario di tutti i tempi, altrettanto, oggi appare Fabrizio come uno dei più straordinari rivoluzionari del Novecento. Con lui abbiamo imparato versi di altissima spiritualità come “Nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’amore”. Allo stesso modo, per il valore del messaggio, le canzoni di Fabrizio potrebbero essere motivo di ispirazione per tante fiabe per bambini tanto alcune tematiche trattate sono in grado di esprimere i veri valori della bellezza di cui i bambini sono portatori sani con la loro innocente purezza. Per questo motivo, in un contemporaneo di contraddizioni che nemmeno oggi siamo riusciti a superare, ci servono le sue parole, ieri come oggi.

Ecco, Fabrizio lo vogliamo ricordare così, con una sua citazione:

“Non ho mai voluto incontrare Brassens personalmente, per mia debolezza. Era un mito e avevo paura che diventasse una persona. Se fosse crollato, mi sarebbe crollato il mondo. George Brassens per me è stato un mito come artista e come uomo. Mi sono avvicinato all’anarchismo per merito suo, perchè avevo di fronte non pura teoria, ma un esempio vivente. Era un modello nitido, rappresentava il superamento dei valori piccolo borghesi. Per me ascoltare Brassens equivale a leggere Socrate: insegnava come comportarsi o, al minimo, come non comportarsi. Insegnava ai borghesi un rispetto cui non erano abituati.”

Allora, forse, a ripensarci, quella sera scelsi bene. Il piano del mistero rimarrà sempre saldamente avvolto dalla scelta dettata da un quindicenne che oggi forse ringrazierei. Ascoltare quelle poesie senza averle vissute in prima persona – con un contatto diretto che solo un concerto sa dare – mi fa vivere ogni volta un’emozione particolare. Un po’ come essersi fatti sfuggire un convegno con Shakespeare o una lezione di pittura di Giotto avendo la possibilità di parteciparvi. Follia o desiderio che il mito rimanga tale?