«C’era una volta un re, e questo re incaricò il suo mago prediletto di fabbricare uno specchio magico. Questo specchio magico non ti mostrava il tuo riflesso. Ti mostrava la tua anima – ti mostrava chi eri realmente». (Amis 2015, p. 34).

Martin Amis introduce Szmul, sonderkommando del campo di concentramento di Auschwitz, attraverso una favola sull’incapacità di vedere la propria immagine riflessa allo specchio. La conseguenza di questa inettitudine risiede nel vicariare il proprio sé di un punto di vista fondamentale, dato dall’animo che rimanda a sé stesso come se fosse parte di un tutto, ovvero un essere percipiente e non solo percepito, «unità riflettente e riflessa» (Deleuze 2016, p. 101). L’atto dello specchiarsi costituisce il momento in cui l’uomo si trova davanti al proprio volto, rappresentato in genere al cinema mediante il primo piano.

Una premessa, quest’ultima, utile per soffermarsi sul manifesto de La zona d’interesse (Glazer, 2024). Un giardino curatissimo, alberi da frutto, sdrai, una piccola tenda e un gruppo di persone fotografate nella loro quotidianità. Il cielo è completamente nero, un’abisso. La peculiarità del manifesto risiede in un dettaglio che caratterizza quasi tutte le pedine in campo: il volto è coperto. Il punto è proprio questo, i personaggi dell’eden formato reality del film decidono di non vedere, scelgono la finzione, la performance per un teatro degli orrori.

Il trailer de La zona d’interesse

Un simulacro del reale

L’indifferenza referenziale della famiglia di Rudolf Höß deriva da un mondo che è un simulacro riproducibile, in cui lo sguardo panottico della regia di Glazer crea un cortocircuito annullando completamente la rappresentazione del reale. Così facendo lo spettacolo globalizzato del dolore – figlio dell’epoca dell’iper-mediatizzazione del reale – viene ribaltato, usando il fuori campo come strumento di rappresentazione del non-visibile che assume forma e funzioni del visibile, opponendosi al postulato di una percezione totalizzante. Seguendo questo pensiero, la scelta di non vedere da parte delle persone dell’eden fa perdere il grado di autenticità dello sguardo e, di riflesso, nelle immagini evitando quindi di partecipare all’atto testimoniale della Storia: vedo quindi sono.

Nel Nuovo Testamento la carnalità rappresenta un elemento di svolta nella credibilità dello sguardo, poiché «il corpo determina la natura di intreccio percettivo» (Scomazzon 2021, p. 116) in cui l’esperienza del toccare e del vedere si possono realizzare solo al prezzo di essere toccati e visti. La testimonianza pone invece al centro dell’immagine il corpo, il suo volto e di conseguenza l’anima. Il rischio a cui si sottopone il testimone in quanto presumibile detentore della verità rende la sua performance drammatica.

Perciò il corpo stesso è garante e limite della testimonianza: «Il testimone è la persona che assiste ad un fatto, etimologicamente è ‘colui che è presente come terzo’, tra la vittima che soccombe e il carnefice che sopprime c’è un terzo sguardo che assiste alla scena ed è pronto a testimoniare sull’accaduto; il testimone è un soggetto scomodo perché escluso dalla relazione duale di oppressore/oppresso, relazione che deve lasciare in vita solo uno dei due termini e che non prevede interventi esterni» (Perniola 2014, p. 56).

Responsabilizzazione dello sguardo

Se la testimonianza è quindi annullata emblematicamente già a partire dagli elementi paratestuali de La zona d’interesse (i volti coperti del manifesto), ad assumere il compito di tale funzione è lo sguardo del regista Glazer, che riduce il mezzo cinematografico a una funzione documentaristica, rendendosi testimone invisibile. L’unico primo piano sul volto di un personaggio – sebbene lo sguardo sia rivolto verso il campo di Auschwitz – è quello di Rudolf Höß, che non a caso anche nel manifesto è l’unica persona adulta a non avere il viso coperto. Il gerarca nazista rappresenta simbolicamente l’immagine dell’orrore, perciò il personaggio che più di tutti rende la narrazione del film figlia e debitrice del suo sguardo e che fa da ponte spazio-temporale con l’occhio asettico di Jonathan Glazer.

Una sorta di personaggio-traccia che diventa per il regista-storico un documento in grado di aprire a una dimensione veritativa che si fa raccoglitrice di eventi, oggetti capaci di rendere le esperienze intersoggettive di passaggio della memoria. Il regista inglese, così facendo, si assume la responsabilità storica della propria messa in scena, creando un archivio di immagini che rispondono a una nuova responsabilizzazione dello sguardo, a una funziona sociale che segue il pensiero di Jacques Rancière secondo cui «la politica e l’arte, come i saperi, producono finzioni, ossia dei concatenamenti materiali dei segni e delle immagini, dei rapporti tra visibile e dicibile, tra ciò che si fa e ciò che si può fare» (Rancière 2016, p. 56).

Campo e contro-campo storico

La narrazione di conseguenza si fa duplice: da una parte abbiamo un presente museale d’archivio, dall’altra la memoria ridisegnata mediante la finzione, una sorta di uso della tecnica del reenactment in ambito documentaristico.

Un controcampo ideale di Shoah di Claude Lanzmann, dove il regista introduce l’intervista al sottufficiale delle SS attraverso un campo lungo della casa di Suchomel. Fuori campo si possono sentire le voci di Lanzmann e del gerarca nazista discutere di questioni quotidiane mentre si preparano all’intervista, che si sarebbe dovuta svolgere in forma anonima e senza nessuna ripresa video che potesse identificare Suchomel. Il segnale audio è trasmesso segretamente dal documentarista verso i suoi tecnici nascosti in un furgone vicino al luogo delle riprese.

Dopo uno stacco inizia la vera e propria intervista dove il sottufficiale racconta con disinvoltura i metodi dello sterminio. Il clima, se vogliamo, cordiale e casalingo instaurato da Lanzmann ha permesso di smascherare il processo di fabrication che molto probabilmente sarebbe intervenuto se l’ex nazista fosse stato consapevole di trovarsi difronte a delle telecamere.

L’idea di rappresentazione del vero di Lanzmann coincide con il valore sociopolitico del documentario come strumento punitivo di una ingiustizia, dove lo sguardo della macchina da presa si sostituisce in un certo senso alla parola delle sentenze. Al tempo stesso l’occhio di Jonathan Glazer mediante La zona d’interesse si fa perfomance, entrando direttamente nella Storia contemporanea, osservando in un nero vuoto abbissale il riflesso della banalità del male.

Bibliografia

M. Amis, La zona d’interesse, Einaudi, Torino 2015.

G. Deleuze, L’immagine-movimento, Einaudi, Torino 2016.

I. Perniola, L’era Postdocumentaria, Mimesis, Milano 2014.

J. Rancière, La partizione del sensibile. Estetica e politica, DeriveApprodi, Roma 2016.G.

G. Scomazzon, Crimine, colpa e testimonianza: sulla performatività documentaria, Mimesis, Milano 2021.

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