Oggi, martedì 7 maggio, con la prima semifinale, prenderà il via l’Eurovision Song Contest 2024. La 68° edizione della rassegna continentale quest’anno si svolgerà a Malmö (Svezia) grazie a Loreen, l’artista svedese – di origini marocchine – che ha trionfato lo scorso anno a Liverpool con il brano Tattoo, diventando la seconda artista – prima donna – a vincere per due volte il concorso dopo l’irlandese Johnny Logan.

Nato su iniziativa di un italiano, il giornalista e drammaturgo Sergio Pugliese, l’Eurovision Song Contest – in Italia talvolta chiamato alla vecchia maniera “Eurofestival” – non è però unicamente un concorso canoro in cui si elegge la più bella canzone d’Europa. È una grande vetrina di promozione politica e culturale per i paesi che vi prendono parte, d’altronde ogni anno tra 150 e 200 milioni di persone guardano lo spettacolo. Negli anni ‘70, senza dati auditel, si stimava che il numero di spettatori complessivi fosse addirittura intorno a 400 milioni. Proprio per questo dobbiamo fare alcuni passi indietro.

Settant’anni di musica e politica

Dicevamo di Sergio Pugliese. La sua proposta di un “Festival di Sanremo europeo” arriva al direttore generale della neonata EBU (European Broadcasting Union, ovvero il consorzio delle emittenti pubbliche europee) Marcel Bezençon nel 1955. Nel 1956 è già realtà, con la prima edizione svoltasi il 26 maggio 1956 a Lugano. Sette paesi in gara (Italia compresa), 14 canzoni – 2 per paese – e una vincitrice: la svizzera Lys Assia con Refrain (Coro).

Come spiega il giornalista Emanuele Lombardini – uno dei principali esperti di Eurovision nel nostro paese e presidente della nostra giuria nell’edizione 2021 – nel suo ultimo libro Unite Unite Europe l’ingresso negli anni successivi di Regno Unito, Austria e Danimarca rende chiaro fin da subito un fatto:

“L’Eurovision Song Contest diventerà ben presto uno strumento della guerra fredda. Perché la guerra “vera” era finita e quindi anche l’inimicizia franco-tedesca doveva finire: adesso c’era un nemico comune da combattere, ovvero l’URSS. Il messaggio di unità europea che si voleva veicolare con l’Eurovision era legato strettamente a questo aspetto”.

“Unite Unite Europe” – Emanuele Lombardini, Arcana Edizioni, 2024

E mentre l’Unione Sovietica rimane fuori, creandosi il suo Intervision Song Contest (tra il 1977 e il 1980), fino alla sua dissoluzione, il numero di paesi che si iscrivono all’Eurovision Song Contest continua ad aumentare.

All’inizio degli anni ‘60 arrivano Spagna (1961), Jugoslavia (1961) e Portogallo (1964): all’epoca rispettivamente sotto regimi di Franco, Tito e Salazar, questi paesi vedono nell’Eurovision Song Contest il palco migliore dal quale fare propaganda. La loro presenza, avallata nel segno dell’inclusione dall’EBU, creerà qualche malumore e la prima contestazione in diretta a Copenhagen nel 1964.

Per il regime portoghese in realtà tale mossa si rivelerà un boomerang: fu proprio una canzone eurovisiva – E Depois Do Adeus (E Dopo Arrivederci) di Paulo de Carvalho – irradiata in radio alle 22.55 del 24 aprile 1974, a dare il segnale dell’inizio della rivoluzione dei garofani, che portò alla destituzione del successore di Salazar, Marcello Caetano, e alla nascita del Portogallo democratico che conosciamo oggi.

Tra gli anni ‘60 e ‘80 debuttano all’Eurovision Song Contest paesi come l’Irlanda (1965), oggi detentrice del record di vittorie – sette – in coabitazione con la Svezia, e Grecia, che si presenta come Regno di Grecia all’Eurovision del 1974, salvo poi tornare nel 1976 unicamente come Grecia, in seguito alla fine della dittatura dei colonnelli.

Tra i paesi che si affacciarono in Europa grazie all’Eurovision è meritevole di menzione il Marocco. Essendo membro dell’EBU dal 1950 per via del suo legame coloniale con la Francia, l’emittente SNRT prese parte alla rassegna nel 1980 mandando a L’Aia (Paesi Bassi) la cantante Samira Said che presentò il brano Bitaqat Hob (Messaggio d’Amore), negli intenti un messaggio per la pacificazione tra Israele e i paesi arabi. Samira Said arrivò però 18° e penultima, e questo mandò su tutte le furie il re Hassan II che decise di non far più partecipare il paese.

La caduta del muro di Berlino nel 1989, la successiva disgregazione dell’URSS e la Guerra dei Balcani portarono ad un allargamento dei confini eurovisivi: tra il 1993 e il 2008 iniziarono a concorre all’Eurovision Song Contest tutti i paesi dell’ex-blocco sovietico e dell’ex-Jugoslavia. In particolare Estonia e Lettonia, debuttanti rispettivamente nel 1994 e nel 2000, avviarono le loro pratiche di ingresso nell’Unione Europea proprio con la partecipazione all’Eurovision Song Contest. Entrambe poi arrivarono a vincerlo, nel 2001 e nel 2002, dimostrando attraverso l’organizzazione del concorso “di poter competere a livello tecnologico con quei Paesi occidentali che sono il riferimento, ma anche di essere una nazione moderna, aperta, tollerante ed inclusiva” come riporta Lombardini nel suo libro.

La vincitrice dell’edizione 2002, la lettone Marie N con il brano I Wanna. Foto: EBU

Proprio la condivisione e la rivendicazione di tali valori su scala globale, l’Eurovision Song Contest rimane l’evento non sportivo più visto al mondo dagli Stati Uniti all’Australia (che compete dal 2015 in quanto invitata dall’EBU), ha portato d’alto canto al ritiro di paesi dove i governi sovranisti non garantiscono i diritti civili e sono repressivi verso la comunità LGBTQ+. È il caso di Turchia e Ungheria che si sono ritirate rispettivamente nel 2013 e nel 2020 per via delle loro posizioni omofobe.

Infine l’Europa post-Covid. Nel 2020 l’evento viene per la prima volta nella sua storia cancellato a causa nella pandemia. Nel 2021, quando Rotterdam (Paesi Bassi) torna ad ospitare l’Eurovision dopo la cancellazione, viene esclusa la Bielorussia. La repressione con la quale il presidente Aleksandr Lukashenko rispose alle proteste a seguito della sua sesta rielezione nel 2020, nota come “la rivoluzione delle ciabatte”, comprese anche il silenziamento della stampa indipendente. Per questo motivo l’emittente BTRC, divenuta megafono della dittatura, de facto, di Lukashenko venne espulsa dall’EBU.

L’anno successivo fu la volta della Russia, invasore dal 24 febbraio 2022 dell’Ucraina. Non fu l’EBU a cacciare le emittenti russe a seguito della propaganda filo-putiniana irradiata sui canali televisivi ma le stesse Perviy Kanal, VGTRK e Radio Dom Ostankino lasciarono il consorzio delle emittenti europee, sancendo l’addio della Russia all’Eurovision Song Contest. Tale evento ebbe ripercussioni anche interne alla manifestazione dato che i costi di iscrizione – che ogni emittente in gara deve sostenere – con l’uscita di scena di uno dei paesi con la quota d’iscrizione maggiore, finirono per aumentare. Questo ha influenzato indirettamente il ritiro negli ultimi anni di Montenegro, Bulgaria, Macedonia Del Nord e Romania, assenti dal contest per ragioni finanziarie.

Eurovision 2024 e il caso Israele

Veniamo infine ai giorni nostri. Il cammino di avvicinamento all’Eurovision 2024 è stato caratterizzato dalle forti polemiche per la presenza di Israele nel concorso, alla luce dell’azione militare in atto da parte dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, come risposta all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023.

Molti paesi, in particolar modo quelli scandinavi, hanno richiesto l’esclusione del paese così come era stato fatto con la Russia nel 2022, a seguito dell’invasione dell’Ucraina. L’emittente svedese SVT ha detto di rimettersi alla decisione dell’EBU, che è stata infine quella di ammettere Israele perché, come spiegato nella nota del dicembre 2023 e riportata dalla testata italiana Eurofestivalnews:

“’L’Eurovision Song Contest è un concorso per emittenti pubbliche provenienti da tutta Europa e dal Medio Oriente. È un concorso per le emittenti, non per i governi […] L’emittente pubblica israeliana KAN è conforme a tutte le regole di concorrenza. Insieme ad altri 36 canali, può partecipare al concorso il prossimo anno.”

Nota EBU al giornale HLN, 08.12.23

È arrivata in seguito la puntualizzazione del supervisore dell’evento, Martin Ӧsterdahl, riportata dal quotidiano economico svedese Dagens Industri:

“L’unica condizione affinché un broadcaster venga squalificato è che infranga le regole. La tv russa l’ha fatto diffondendo disinformazione sull’invasione dell’Ucraina. Ma mentre la tv russa è l’estensione di Putin e del Cremlino, lo stesso non si può dire di KAN perché Netanyahu ha tentato di silenziarla. Essendo un broadcaster indipendente abbiamo il dovere di supportarla.”

Martin Österdahl, supervisore esecutivo dell’Eurovision Song Contest, Dagens Industri, 27.04.24

Alla fine a rappresentare Israele a Malmö sarà la ventenne Eden Golan con il brano Hurricane. Tale canzone era stata inizialmente presentata all’EBU con il titolo October Rain venendo bocciata in quanto conteneva riferimenti al massacro di Hamas del 7 ottobre. Per regolamento infatti all’Eurovision Song Contest non sono ammessi testi con contenuti politici, pubblicitari, confessionali od offensivi. Un secondo brano, Dance Forever è stato ugualmente respinto per i riferimenti al rave nel deserto del Negev, uno dei luoghi colpiti da Hamas. È servito l’intervento del presidente israeliano Yitzhak Herzog, che ha invitato a fare di tutto per preservare la partecipazione su un palco così importante come quello eurovisivo, a portare al cambio del testo di October Rain, diventata appunto Hurricane.

Negli ultimi giorni, infine, come riportato da molte agenzie, anche italiane, si è discusso ampiamente il ban delle bandiere palestinesi dalla Malmö Arena. In questo caso manca però un passaggio, che rende di fatto questa una “non notizia”, e cioè il fatto che per regolamento, da sempre, sia vietato per il pubblico introdurre nell’arena dove si svolge il contest bandiere di paesi non in gara.

Inizialmente la regola vietava unicamente le bandiere di paesi non pienamente riconosciuti dalla comunità internazionale, cosa che attualmente avviene con la Palestina. Dallo scorso anno – sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina – la regola è stata inasprita. Pertanto, ad esempio, anche sventolare la bandiera degli Stati Uniti è vietato. Le uniche eccezioni sono la bandiera dell’Unione Europea e quella arcobaleno.

La rappresentante del Lussemburgo, Tali Golergant, durante le prove generali alla Malmö Arena. Foto: Sarah Louise Bennett – EBU

La questione israeliana ha quindi catalizzato l’attenzione in questi mesi oscurando altre storie. Come quella del ritorno in gara dopo 31 anni del Lussemburgo, che sarà rappresentato da un’altra artista israeliana, Tali Golergant, in gara con un brano, Fighter, che porta anche la firma dell’italiano Dario “Dardust” Faini. Il ritorno in gara del piccolo Granducato ha una forte valenza politica, e ciò ci permette di chiudere il cerchio della narrazione, perché, come si legge nella nota del governo lussemburghese:

“Ritieniamo che il ritorno al più importante concorso canoro di sempre sia un’ottima occasione per riaffermare lo spirito europeo e internazionale del Granducato in campo mediatico e musicale. […] Una partecipazione lussemburghese all’Eurovision contribuirà anche alla promozione del paese come destinazione turistica, dei suoi valori e del suo brand.”

Comunicato stampa dipartimento Media, Connectivity and Digital Policy, gouvernement.lu, 12.05.23

Tra poche ore però il suono delle melodie dei 37 paesi in gara quest’anno sovrasterà queste dinamiche, con Croazia, Svizzera, Italia, Ucraina e Francia principali indiziate a portare a casa il microfono di cristallo, iconico trofeo della competizione. Altre storie si materializzeranno sul palco e altre da lì prenderanno respiro per viaggiare in tutta Europa, perché, parafrasando Edoardo Bennato, non sono solo canzonette.

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