Roma non è stata costruita in un giorno. Il diritto al professionismo nello sport femminile, è evidente, neppure. Ma almeno da ieri ne sono state poste le fondamenta. Dell’anomalo trattamento riservato alle calciatrici in questi anni da governi e istituzioni sportive se ne era parlato recentemente nell’ambito della rassegna cinematografica MediOrizzonti. Una serata, a dirla tutta, in cui regnava un certo scetticismo. Troppe le delusioni, palpabili le perplessità che avevano fatto da contorno alla richiesta di un diritto che costituiva uno spartiacque rispetto ad una condizione di inferiorità rispetto ai colleghi maschi. Alla proiezione del docufilm “Freedom Fields”, firmato dalla regista anglo-libica Nazira Arebi, era intervenuta Alice Bianchini, vice presidente della Fortitudo Mozzecane. Le battaglie civili perse delle calciatrici libiche idealmente sembravano presagire una sorta di un gattopardesco “tutto cambia per non cambiare nulla” applicabile a ogni latitudine.

Una battaglia di cività

Un altro mondo la Libia, si dirà. Certi pregiudizi però non sono poi così lontani. Dalle parti di Tripoli, dopo l’abbattimento del regime di Gheddafi, poco è cambiato sul piano del rinnovamento culturale. La pellicola della regista, per dire, ha avuto il pregio di fotografare le speranze bruciate sull’altare dei pregiudizi di una società fondamentalmente machista. Attraverso il calcio, potenziale veicolo di emancipazione e immagine di ciascun paese sul piano antropologico, la cineasta ha raccontato la vita e l’impegno di Fadwa, Halima e Naama, il loro amore per lo sport più popolare al mondo ma soprattutto la determinazione a combattere con i pochi mezzi a disposizione una battaglia di civiltà. Lo sconforto di tre coraggiose donne calciatrici nei confronti di una rivoluzione che prometteva libertà e che invece ha portato la Shari’a non sembrava, in ultima analisi, troppo differente da quello vissuto dalle ragazze italiane.

Alice Bianchini alla proiezione di “Freedom Fields”

Nonostante la crescita del movimento e le ottime prove delle Azzurre di Milena Bertolini, dalle nostre parti certe discriminazioni e alcuni pareri apparivano – con le debite proporzioni – non troppo dissimili a quelli sofferti dall’altra parte del Mediterraneo. Pregiudizi assortiti – dagli orientamenti sessuali fino alle doti tecniche – si sono trasformati in zavorre, con la gestione di Carlo Tavecchio che sarà ricordata per le gaffe nei confronti delle donne più che per averne promosso l’emancipazione. Poi c’è stato un sussulto: l’abbinamento ai club professionistici maschili, che ne ha migliorato il posizionamento mediatico. Il grande balzo in avanti però restava lontano. Fino a ieri. Finalmente, ecco il gol tanto atteso: la Commissione Bilancio al Senato ha approvato un emendamento alla manovra che agevola società e federazioni al passaggio al professionismo delle donne sportive.

La meraviglia di Alice

Una notizia che fa piacere, con l’introduzione di un incentivo fino al 2022, per le società che stipulano con le atlete contratti di lavoro sportivo, vale a dire l’esonero del versamento del cento per cento dei contributi previdenziali e assistenziali entro il limite massimo di ottomila euro di su base annua. Poca roba, rispetto ai milioni del calcio degli uomini, ma il traguardo raggiunto vale molto più delle dimensioni imparagonabili dei due movimenti. «È un grande passo, per lo sport e per le donne»  – sorride finalmente Alice Bianchini. «Ora la palla passa alla Federazione, da cui attendiamo le prossime mosse. Le agevolazioni fiscali ci potranno aiutare ma la strada, sul piano economico, resta in salita. Il movimento è ancora piccolo nelle dimensioni per potersi auto-sostenere. Servono contributi e una pianificazione adeguata per poter realmente fare un salto di qualità. Oggi, tranne le grandi della serie A femminile, si gioca a calcio solo per passione.»

Il primo mattone è stato comunque posto. La morale? Perseverare nel sostegno di battaglie per i diritti civili non è mai diabolico.

(Foto di copertina by Tullio M. Puglia/Getty Images)