Barbara Rigon è nata a Verona nel febbraio 1982, si diploma al liceo classico e si laurea in lingue e letteratura moderne ma scopre ben presto che nella fotografia c’è la chiave del suo futuro.
Da qualche anno si divide tra Veneto e Puglia, dove dimora nella perla bianca di Ostuni che la riporta alle sue origini. Dell’arte fotografica ama i ritratti ed è una delle più quotate professioniste per quanto riguarda la fotografia in ambito musicale. Sensibile, attenta ma timida tanto che questa sua storia che si inscrive tra le domande e risposte è stata difficile da ottenere. Perchè Barbara ama raccontare, per immagini, le storie altrui ma la sua preferisce tenerla in secondo piano. Per “IlNazionale” ha fatto una eccezione.

Barbara, da dove nasce la tua passione per la fotografia?

«È stato mio padre a trasmettermi la passione per la fotografia. Lui ha sempre fotografato e filmato per diletto. Grazie a lui ho preso in mano la mia prima macchina fotografica a 13 anni e da allora non l’ho più lasciata.
Mi ricordo le diapositive e i super 8 di famiglia proiettati sul muro di casa. Le immagini fissate sulla carta mi hanno sempre affascinato, sono memoria indelebile. Amo moltissimo le vecchie foto, cerco sempre di scrutare il volto di quelle persone ritratte che non ci sono più per cercare di conoscerle, di farmi raccontare la loro storia. Credo che sia il rapporto con la memoria delle persone che mi affascina ancora oggi: un volto, un momento, una storia che altrimenti andrebbero perduti.»

Barbara Rigon, autoritratto

Quando ti sei accorta che sarebbe diventata una professione?

«All’inizio ci speravo, ancora non lo sapevo. Ho iniziato i primi piccoli lavori mentre studiavo. Poi sono entrata in una compagnia di teatro di Verona con la quale ho iniziato a collaborare sempre più stabilmente. Da lì ho iniziato a muovermi, a cercare, giravo per i festival per farmi le ossa, conoscere l’ambiente e farmi conoscere. Di conseguenza è iniziata la collaborazione con alcune riviste e così ho capito che se avessi perseverato, avrei potuto trasformare la mia passione in una professione. Oggi lavoro con una compagnia teatrale, Bam!Bam! Teatro, che ho contribuito a fondare con un gruppo di grandi professionisti e amici, collaboro con molti musicisti, aziende, festival, e sono parte di alcuni progetti importanti. Non lo potevo immaginare all’inizio, ma oggi un sogno si è avverato.»

Come è cambiata la fotografia, secondo te, negli ultimi anni, non solo come tecnologia?

«Sicuramente molte cose si sono modificate, ma anche io sono cambiata. Quando ho iniziato scattavo ancora con la pellicola sebbene già esistesse il digitale. E, quindi, se volevi pubblicare su un giornale la pellicola era già obsoleta. Oggi tutti scattano foto. Rispetto a 15 anni fa non c’erano né smartphone né Facebook o Instagram. I fotografi, professionisti e non, sono aumentati enormemente in questi anni, e questo non sempre risulta essere un bene. In generale credo che sia un lavoro che oggi viene meno rispettato.»

A chi, giovane, si avvicina al mondo della fotografia oggi quale consiglio daresti per entrare nel ‘mercato’?

«Scattare una fotografia oggi sembra essere qualcosa di estremamente facile, alla portata di tutti attraverso il proprio smartphone, per poi altrettanto facilmente editarla con filtri digitali preimpostati. La maggior parte delle volte però questa estrema facilità porta a non allenare lo sguardo, a non osservare quello che si vuole fotografare, a non sviluppare un proprio linguaggio stilistico. A un giovane “coraggioso” che volesse intraprendere questa strada potrei dire di allenarsi, allenare lo sguardo, allenare la tenacia, perché non sarà facile farsi strada in questo ambiente, allenare la pazienza. Magari stare vicino a un professionista di esperienza che abbia la voglia di trasmettere, se non qualche segreto, almeno l’etica di questo lavoro e la capacità di adattamento a diverse situazioni che possono capitare. E poi, forse la cosa più importante, essere curiosi, sempre e di tutto quello che ci accade intorno.»

Mark Turner, ritratto da Barbara Rigon

Tra i diversi lavori che hai realizzato a quale sei più legata emotivamente o per altre motivazioni che puoi raccontarci.

«C’è un ricordo che non potrò mai dimenticare, forse anche perché ero agli inizi. Castello di Villafranca, luglio 2004. Iniziavo a fotografare in un grande festival jazz, quando Veneto Jazz passava ancora per Verona. Il concerto era del mitico Wayne Shorter con Herbie Hancock, Dave Holland e Brian Blade. Quello che ricordo maggiormente non è il concerto, ma il soundcheck, che da sempre per me è il momento privilegiato per fotografare e entrare in contatto con i musicisti. Ricordo la calura di quel pomeriggio di luglio, questo spazio enorme, e io, emozionata e incredula di poter condividere quel tempo con dei mostri sacri che non avevo mai visto dal vivo prima. Ero l’unica a fotografare, e forse per il fatto di essere una giovane ragazza, nessuno di loro sembrava infastidito dalla mia presenza, anzi, ricordo che me ne stavo sul palco con loro a gironzolare senza che questo creasse loro nessun problema. Essere lì mi esaltava. Forse non ho fatto delle grandi foto quel giorno, ma quell’emozione mi ha accompagnato per molti anni in moltissimi concerti e mi ha dato la spinta per girare in tanti festival in Italia e all’estero.»

Quali sono i tuoi soggetti preferiti e perché?

«I ritratti. ho sempre avuto una passione per i volti. le facce. le persone. E le storie dietro quei volti. Catturare un momento, un indizio. Mi piace molto guardare, osservare, prima di fotografare. a volte guardo e basta. Ecco, quello che mi piace moltissimo è guardare. E poi con il soggetto si crea un legame, una piccola, breve intimità, a volte è così forte che ci si emoziona, altre volte è più controllata, ma sempre, sempre, si accende una scintilla. Lavorando soprattutto con artisti, sia musicisti che attori, artisti visivi o scrittori, il livello di sensibilità è molto molto elevato e la connessione molto forte. La sorpresa più bella però è quando ritraggo persone che non conosco e che non sono abituate a stare davanti all’obiettivo. Mi è capitato spesso, ed è una magia intravedere una lucina in quello spiraglio, un brivido, un’emozione. Con questo tipo di lavoro mi avvicino all’altro con una fiducia e una libertà che mi riconciliano con il genere umano!»

Un ritratto “musicale”, opera di Barbara Rigon

Hai un rapporto speciale con il mondo della musica, come mai? Cosa ti piace di quel mondo?

«È stata la prima vera passione. Ho studiato musica e già da ragazzina frequentavo l’ambiente musicale, soprattutto del jazz. Verona fino a 10-15 anni fa vantava un giro di musicisti che poi sono diventati anche molto famosi e che conosco fin da quando ero adolescente. Quando mi sono appassionata alla fotografia cercavo dei soggetti da ritrarre e in modo naturale li ho trovati in questi musicisti. Poi c’era un grande Verona Jazz, le prime richieste di foto, i primi dischi con etichette indipendenti. Poter lavorare con musicisti di fama internazionale, far parte delle loro produzioni attraverso la loro immagine, progettare insieme, essere con loro durante le prove, nelle sale di registrazione, dietro le quinte, ai concerti, esserci e documentare quei momenti, questo è piacere e un privilegio. In seguito, in molti casi queste collaborazioni sono diventate vere e proprie amicizie e questa è la mia vera ricchezza.»

A Verona sei spesso presente in eventi culturali importanti come il Tocatì, cosa ti piace della fotografia di eventi? E come li scegli, o sono loro che scelgono te?

«Il Tocatì è stato uno dei primi festival nel quale ho iniziato a fotografare. Ho conosciuto le persone che lo organizzavano fin dalla prima edizione e sono diventate i miei amici più cari. Con il festival e con loro sono cresciuta come persona e come fotografa, abbiamo fatto molti progetti con Aga (Associazione Giochi Antichi) che stiamo sviluppando ancora oggi. A loro devo molto per la fiducia che da sempre ripongono in me e che rinnovano ogni anno. Altri festival che seguo sono di altro genere, ma solitamente vengo chiamata, a meno che non ci sia qualche evento che mi interessa particolarmente e per il quale mi propongo.»

Ci risulta che da qualche anno ti dividi tra Verona e la Puglia, come mai?

«C’è stato un periodo della mia vita nel quale avevo bisogno di tornare all’origine. Un posto mio dove fare ordine. La mia famiglia è quasi del tutto di origini pugliesi, e naturalmente sono stata attirata da quel richiamo antico. Col tempo ho capito che scendere mi faceva stare bene, lì scoprivo cose di me che avevo tenuto dormienti in me. E così ho iniziato a passare in Puglia dei periodi anche molto lunghi. Poi ho iniziato anche a lavorarci, quindi per forza di cose adesso mi devo dividere!
Il nord e il sud sono le due parti di me che per anni hanno cercato di prevaricare l’una sull’altra. Ho la fortuna di essere nata in una città bellissima e viva come Verona, che mi ha dato e mi dà moltissimo, dove sono cresciuta, dove ho passato la maggior parte della mia vita, dove ci sono i miei amici più cari e un parte importantissima della mia famiglia. E poi c’è il richiamo del sud, della Puglia. Sento di essere legata a quella terra come a un cordone ombelicale. è la mia pancia, il mio sangue. Ciclicamente nella mia vita ci sono passata e ripassata, sempre tornata, per poco o per molto. È il luogo delle mie passioni e dei miei ricordi d’infanzia, delle mie radici.
Ci ho messo degli anni per capire che sono due parti di me, come il bianco e il nero, il nord e il sud. Non c’è conflitto, è completezza.
Per quanto a volte possa sembrare faticoso il mio frequente spostarmi, credo di aver trovato un equilibrio per non rinunciare a niente di quello che amo e che mi fa stare bene. Riesco a incastrare il lavoro e la vita privata in tutto questo caos apparente. Sono sempre in movimento. E in questo modo ogni volta tornare, sia su che giù, mi permette di vedere le cose sempre con occhi nuovi e curiosi, prendo il meglio di questi luoghi che sento, se pur in modi e per motivi diversi, profondamente miei.»

Un paesaggio di Barbara Rigon

Differenze diciamo “visive” tra nord e sud?

«Il paesaggio, l’architettura, e i colori, sono nettamente diversi. Quello che mi piace di entrambi i luoghi è il minimalismo di certe forme e di certi colori. Al sud per me si esprime in colori pieni, in una geometria antica, schietta e rassicurante. Al nord, e mi sono dovuta allontanare per apprezzarla, ho imparato ad amare i colori della terra, le forme tenui della pianura.»

Quando sei in Puglia cosa ti manca e cosa no di Verona?

«L’ordine e la puntualità!»

Quando sei in zona veneta cosa ti manca della Puglia e cosa no?

«Prendere la vita molto slow.»