Il sogno è quello di Alcide Marchioro, direttore artistico del Festival della Bellezza, da pochi giorni iniziato a Verona. In questa intervista racconta la storia e l’identità della kermesse e svela qualcosa di se stesso, nonostante la timidezza.

In un carteggio con James D.Clark, nel marzo del 1883 Emily Dickinson scrisse che la Bellezza è spesso timidezza. Una frase che risuona in modo curioso durante l’intervista ad Alcide Marchioro, direttore artistico del Festival della Bellezza, quest’anno giunto alla sesta edizione, che ogni giorno cerca di scendere a patti con la sua connaturata riservatezza. Un atteggiamento caratteriale rafforzato da un’educazione alla misura ricevuta fin dall’infanzia, trascorsa nel piccolo mondo gardesano di Salò, e mai scomparso nonostante gli anni universitari nella metropoli di Milano.

Il titolo della rassegna 2019 è piuttosto impegnativo: “L’Anima e le forme”, ovvero un’analisi del rapporto tra uomo e assoluto, e come esso si manifesti in musica, letteratura, pittura, filosofia, cinema, teatro. Non proprio un approccio semplice, eppure Marchioro crede che sia possibile portare migliaia di persone lungo un percorso complesso. «Serve innescare la curiosità e favorire la piacevolezza dell’esperienza – afferma –. Da bambino mi annoiavo molto a lezione, mentre adoravo il cineforum, il teatro, proprio per la capacità che avevano di rapire e coinvolgere un pubblico eterogeneo nella stessa storia. È quello che ho cercato di fare con il festival.»

Alcide Marchioro

Se nei primi tempi ha collezionato esperienze deludenti, con «cinque spettatori, privo di strumenti di comunicazione e scarse possibilità di accedere ai giornali», è a Verona che Marchioro trova finalmente le condizioni ideali per mettere in piedi delle iniziative culturali di crescente successo, innanzitutto con la nascita dell’associazione Idem, inizialmente pensata per offrire agli studenti l’occasione di incontrare i protagonisti della cultura. Gli appuntamenti hanno però un tale successo che rapidamente vi partecipano anche moltissimi adulti, e l’idea di far nascere un festival viene in poco tempo da sé.

«È stata una scommessa spinta dalla passione, anche perché non si offre semplicemente un palcoscenico per artisti in tournée, bensì si cerca di proporre qualcosa di coerente con il tema dell’anno. Abbiamo trovato in città, tra privati e istituzioni, un dialogo costante che ha portato sostegno e sponsorizzazioni. E nessuno ha mai tentato di condizionarci sull’offerta culturale.»

Marchioro ripete più volte la parola pathos: nonostante una proposta intellettuale articolata, quello che ama di più è vedere il pubblico appassionarsi, magari tornare anno dopo anno per ascoltare lo stesso personaggio. «Galimberti, Daverio, Baricco sono stati i primi a partecipare e continuano a tornare proprio perché c’è chi li aspetta – prosegue il direttore artistico –. In poco tempo si è formato un pubblico molto vario, di giovani, adulti, anziani, che ascoltano discorsi diversi da quelli che si sentono di solito. Si cerca di non assecondare i gusti del momento, ma di mantenere un’ottica più a lunga durata. Alla fine mi rivolgo innanzitutto ai grandi classici perché sono più vivi e fanno parte di ciò che siamo. Ci parlano e dicono di noi.»

La scelta di dedicare un intero festival alla Bellezza può sembrare un azzardo, sapendo che questo concetto ha assunto accenti profondi e contradittorî, tanto che oggi non è più sinonimo di piacevolezza. «L’idea di bellezza che sta alla base del festival è di matrice romantica, epoca in cui si supera il concetto di armonia e ci si avvicina a quello di forza espressiva, capace di oltrepassare il tempo. Credo che la propensione al bello sia di natura spirituale, una condizione esistenziale che a ogni edizione è capace di stimolare non solo gli spettatori, ma soprattutto gli ospiti. Quest’anno ad esempio Vinicio Capossela dedicherà alla bellezza due serate, prima in un dialogo su Oscar Wilde e poi con un concerto che prende spunto dalla ballata di John Keats La belle dame sans merci

Vinicio Capossela (foto di Simone Cecchetti)

Il legame con ciò che è diventato classico non esclude comunque che le riflessioni si aprano al contemporaneo, in modo trasversale e secondo nuove prospettive. «Ammetto di sentirmi a volte estraneo a questo tempo così veloce: negli anni mi accorgo quanto sia cambiato il ritmo delle cose e la capacità di attenzione. Non ci sono più tempi lunghi, la riflessione è sempre più marginale. Anche per questo la formula teatrale, in cui tutto si svolge entro un’ora e mezza, è una cornice adatta al pubblico di oggi. La sfida è di coinvolgere chi è un neofita e di suscitare in chi è molto colto un pensiero diverso, con delle ricadute che aprono finestre. Sa quali eventi hanno più spettatori? Gli incontri a tema filosofico. All’inizio pensavo che sarebbe stato un po’ ostica come proposta, invece vedo che il pensiero ha un fascino in crescita e infatti il trend del festival è in questa direzione.»

È un cruccio di non facile soluzione quello di Marchioro: elaborare ogni anno insieme ai suoi collaboratori una proposta che nasce concettualmente complessa, ma che deve poi trasformarsi in un programma piacevole per ogni tipo di pubblico e, magari, riuscire a raggiungere altri palcoscenici. «Le idee che il festival propone devono poter viaggiare, infatti da quest’anno ci espandiamo al Teatro Olimpico di Vicenza, al Bibiena di Mantova e al Vittoriale di Gardone Riviera. Ambasciatore sarà Philippe Daverio, che inizierà con un’indagine su Piero della Francesca al Teatro Romano. D’altronde Verona è culturalmente molto più interconnessa di quanto si dica: è una città di passaggio e di relazioni per sua vocazione. E poi ha un legame profondo con due intellettuali immortali, Shakespeare e Dante, che le danno un ulteriore fascino di portata internazionale.»

Qualche critica si è comunque sollevata per la ridotta presenza femminile tra gli ospiti. «Questo è una difficoltà che non abbiamo con le artiste (questa edizione ospita Paola Turci, Laura Morante, Patti Smith, Melania Mazzucco, Alexandra Dovgan, nda), mentre è più complesso con le figure di donne intellettuali. Trovare le persone adatte a sostenere un palcoscenico davanti a quasi duemila persone non è facile: il pubblico deve sentirsi coinvolto e il protagonista deve essere a suo agio. Poi c’è anche la questione della notorietà e della dimestichezza con questo tipo di performance. Forse non abbiamo individuato ancora le possibili protagoniste o ci siamo persi qualcosa.»

Difficile pure essere contemporanei fino in fondo, perché lo sguardo si volge ai modelli, a chi ha fatto la storia culturale del Paese. «Ammetto che spesso ciò che mi attrae potrebbe risultare noioso – chiosa Marchioro –. Uno degli amici che frequentava la mia famiglia era Mino Martinazzoli: ecco, io sono più di quel tipo lì, cerco il ragionamento complesso. Però oggi in politica un Martinazzoli non lo vorrebbe nessuno per molte ragioni. In ugual modo, fatico a trovare figure altrettanto capaci di diventare storia della cultura di questo Paese: Paolo Conte, Gaber, Jannacci, De André, Fellini, Antonioni sono decisamente dei riferimenti. Non ho sinceramente idea di chi attualmente potrebbe diventare un classico.»S

In un gioco di pura immaginazione, se potesse viaggiare nel tempo e invitare qualche grande del passato, Marchioro risponde d’impeto «Kafka, anche se ce ne sarebbero molti altri. Però lui è una figura carismatica, affascinante. Anche se a ben pensare credo che gli avrei fatto una cattiveria e per amor suo avrei evitato di importunarlo».

Verona, che per Daverio sarebbe un ideale set cinematografico per un regista americano, grazie al suo respiro architettonico e per quel fiume che unisce degli scorci in cui la storia dialoga con la classicità, è quindi il set di un’idea tanto ambiziosa quanto idealista. «Far quadrare i conti e rendere sostenibile il festival è importante, ma alla fine i passi si fanno grazie alla passione – conclude il direttore artistico –. A volte anche all’inesperienza, come quando ho cercato di invitare senza successo Leonard Cohen o sono arrivato più volte a un soffio da Woody Allen, che però ha rifiutato perché non parla in pubblico di cinema. Diciamo che in un’epoca in cui conta molto come appari, sto cercando di non fare brutta figura, che è un po’ l’obiettivo della nostra generazione. Non lo dico per snobismo, mi piacerebbe vincere la timidezza ed espormi di più. Però nel dubbio, preferisco astenermi.»