Dai fumetti al teatro, per approdare infine al cinema horror. Il percorso di Diego Carli, regista che da anni porta avanti una produzione di corti e mediometraggi a tema horror ambientati nei dintorni di Verona, è qualcosa di davvero unico nel panorama della nostra città e del Paese in generale. Originario di Trieste, Carli si è formato all’Accademia delle Belle Arti di Venezia, seguendo i corsi del professor Carlo Montanaro (tra i principali organizzatori delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone). «Il biennio all’Accademia mi ha entusiasmato», ci racconta. «Lui trasmetteva una passione per il cinema che mi ha coinvolto».

La sua passione per le immagini viene da più lontano, però. Dalle estati in cui il padre lavorava come proiezionista in un cinema all’aperto. «Tutte le sere vedevo un film diverso, dalle commedie scollacciate a Sergio Leone, da Dario Argento ai poliziotteschi. Mi sono fatto un’opinione del cinema già nella mia infanzia». E poi c’è l’esperienza come disegnatore di fumetti: «Ho disegnato per “Il piccolo missionario”, “Il corriere dei piccoli” e ho realizzato un paio di storie brevi per Dargaud, la casa editrice di Lucky Luke». Per poi approdare al teatro da attore, e infine al cinema, da regista.

Quest’anno il lavoro teatrale lo sta tenendo impegnato in Spagna, ma ha trovato il tempo di sedersi con Il Nazionale per parlare di una passione che lo ha portato a competere con i suoi corti in tanti festival intorno al mondo…

C’è una bella differenza tra cinema e teatro. Cosa ti danno di diverso le due esperienze e come si integrano tra loro?

«Se non avessi un background teatrale non saprei dirigere gli attori. Credo che ogni regista cinematografico dovrebbe fare un percorso attorale. Un attore, anche se bravo, quando arriva da te è come un secchio vuoto. Il regista deve saperlo portare su binari che gli interessano. Ed è un po’ difficile se ti manca l’esperienza attorale. È l’errore dei videomaker: pur avendo la padronanza del mezzo e della grammatica cinematografica, non sanno mettere in scena il prodotto attorale. Si avvicinano più a un direttore della fotografia che a un regista.»

Perché ti interessa così tanto l’horror?

«L’horror mi ha sempre aiutato a esorcizzare certe mie paure. Ma mi piace anche vedere come si arriva al meccanismo della paura attraverso una serie di passaggi, dallo studio degli effetti speciali al montaggio. Per poi scoprire se effettivamente la cosa spaventa o meno. A livello creativo è stimolante capire come risolvere problemi durante la lavorazione, e arrivare a un risultato ottimale con pochi mezzi. Un po’ come facevano i vari Lucio Fulci e Mario Bava, che, a livello artigianale, riuscivano a ricavare un genere con un ottimo riscontro.»

Hai citato gli horror italiani anni ’70 e ’80, una scuola molto riconoscibile anche all’estero. In Italia abbiamo sempre declinato i generi in maniera molto forte sul nostro territorio. Che è poi quello che fai anche tu con i tuoi progetti, come il found footage Il caso Anna Mancini

«A proposito de Il caso Anna Mancini, molti hanno criticato la recitazione dialettale come fosse il segnale di un impianto amatoriale. Ma c’è uno sbaglio di fruizione: nel caso del found footage (sottogenere horror che simula il ritrovamento di filmati reali, nda), il fatto di inserire le inflessioni dialettali avvicina lo spettatore al film, gli permette di riconoscersi. È l’horror della porta accanto. L’ultimo corto che ho fatto, invece, l’ho girato in inglese. Negli Stati Uniti si interessano di più a te se giri nella loro lingua. Si rompono a leggere i sottotitoli…»

Hai preso attori madrelingua?

«Ho preso mia figlia. Quando abbiamo girato aveva quindici anni. Avevamo una consulente madrelingua che le ha spiegato bene la pronuncia, le differenze culturali, il modo di approcciarsi. Il corto si chiama DAD e si può vedere sulla mia pagina Vimeo. Sta andando molto bene: è già stato preso da tre festival americani. Lo abbiamo girato in tre notti a Soave. Abbiamo dovuto avvertire il quartiere che ci sarebbero state urla e figure incappucciate in giro!»

Immagino che un grande aiuto, quando si gira con così pochi mezzi, venga dal digitale. Oggi è davvero possibile girare a zero budget…

«Sì, certo, però bisogna avere una buona macchina da presa, obbiettivi e luci. Anche l’audio è molto importante, altrimenti all’estero il film non te lo guardano nemmeno. Il digitale è certamente un aiuto, ma allo stesso tempo, se non hai mezzi sufficientemente tecnologici, puoi realizzare dei prodotti amatoriali, ma non competere ai festival.»

Tu lavori anche con i ragazzi…

«Sì, con la scuola Altri posti in piedi di San Giovanni Lupatoto abbiamo creato il corso di cinema Ciak for Kids, che insegna ai ragazzi le dinamiche e il linguaggio cinematografico. Da come si scrive un soggetto all’uso macchina presa. Sta avendo un grande successo, si iscrivono un sacco di ragazzi. E ogni anno produciamo un piccolo film che partecipa anche ai festival. Un corto di Ciak for Kids ha vinto il Blood Film Festival, un festival horror australiano dedicato ai ragazzi. Un altro, un found footage sulle leggende di Monteforte, ha vinto il premio per la valorizzazione della cultura veneta promosso dal Miur.»

Quali sono i tuoi progetti futuri?

«Ne ho uno abbastanza ambizioso. Si tratta di un lungometraggio, un horror storico che partirà solo se troveremo una cordata di finanziatori. Nel frattempo abbiamo girato un teaser per accedere al crowdfunding, ma non possiamo contare solo su quello perché sarebbe un rischio. E poi, grazie a un festival e a un distributore, abbiamo ottenuto un piccolissimo budget per girare un corto nel 2020, un horror storico che vorremmo girare in Lessinia. È ambientato nel ‘500 ed è la storia di due sorelle che scappano da quattro individui che le vogliono uccidere, ma poi si scopre che una delle due è un vampiro. Voglio curare in dettaglio i costumi, le riprese, le scene di lotta. Sto lavorando con una truccatrice bravissima di San Bonifacio, che mi curerà gli effetti speciali. Non digitali, ma pratici. Come negli anni ’70.»