Il fallimento di un progetto. Questo è oggi il Verona di Fabio Grosso a quattro turni dalla fine di un campionato trascorso tra un balbettio e l’altro fino alla caduta a picco contro il Benevento. Evaporato l’obiettivo della promozione diretta, anche la risalita attraverso la porta di servizio degli spareggi, si fa giorno dopo giorno quanto mai complicata (sempre che questi benedetti play-off si riescano a raggiungere). Forte di una campagna acquisti di sicuro – sia pur sopravvalutato che sia – rafforzamento e accreditato in estate come una delle favorite insieme a Benevento e Palermo, il Verona è la vera delusione della stagione. Non ci si scappa. Se c’erano ancora dei dubbi, sono stati spazzati via brutalmente il giorno di una Pasquetta da inferi. Un lunedì che più che l’angelo, se l’è preso il diavolo. Il Benevento (ci risiamo: lo era già stato lo scorso anno, ricordate?) è stato per il Verona il vaso di Pandora da cui sono usciti tutti i mali possibili di una squadra invertebrata, molle, e intenta a specchiarsi nella sua presunta e mai tale bellezza fino alla noia. Idee zero, attributi zero, cuore zero, concretezza zero. Una squadra che avanti è sempre andata con la febbriciattola a 37,5 °C, salvo salire vertiginosamente a 40 °C e scendere nel migliore dei casi a 37 °C, mai sotto.

Fabio Grosso in conferenza stampa

Spiace dirlo, perché è una persona perbene, ma la responsabilità del disastro ricade in primis sulla figura dell’allenatore. In tempi non sospetti, la scorsa estate ci permettemmo di avanzare dubbi sul fatto che quello di Fabio Grosso corrispondesse al profilo giusto. La rosa costruita sul mercato, ci pareva (e ne siamo tuttora convinti) competitiva. Lo dicevano e lo scrivevano anche addetti ai lavori ben più autorevoli di noi. La rosa del Verona è valida, ma è pure una delle più giovani di tutta la serie B. Al timone, avremmo visto volentieri, un uomo pragmatico di comprovata sostanza ed esperienza, per intenderci un Russel Crowe con i galloni di Master and Commander capace di tirare fuori dal gruppo a forza di ruggiti tutto il buono che c’è.

Fabio Grosso ha sposato la linea impiegatizia del politicamente corretto, dell’obiettivo da raggiungere attraverso il bel gioco. Idea già di suo ambiziosa e, ahinoi, rivelatasi supponente se oltre ai risultati assai al di sotto delle attese, il gioco del Verona si è il più delle volte tradotto sul campo in quella Nenia del Salvador cantata da Alberto Fortis nel lontano 1981.

Che non sarebbe finita bene, lo avevamo purtroppo già capito l’11 novembre scorso quando il Brescia ci prese a pallonate al Rigamonti. Fu una doccia scozzese, una lavata di capo severa, che purtroppo a nulla è servita. Dinanzi a un simile misfatto, quello era infatti il momento di sostituire al timone un nocchiero chiaramente finito fuori rotta. E qui entra in gioco la società, rea di non aver provveduto a intervenire tempestivamente, condannando il Verona, il suo stesso allenatore, e soprattutto il popolo gialloblù alla Via Crucis di una Pasqua da dimenticare.

Setti, sguardo verso…?

E ora che fare? A quattro gare dal termine, è oggettivamente tardi, ma più che l’inutilità di rumorosi silenzi stampa e ritiri punitivi, è semmai proprio il cambio di allenatore più volte inutilmente invocato, ad apparirci quanto mai opportuno. Venga pure chicchessia (tanto ormai, maghi su piazza non ce ne sono), ma si chiami al capezzale qualcuno che perlomeno provi a dare la scossa attraverso la svolta su un calcio ruvido, rozzo, e cazzuto. Tutta roba che i fiori d’arancio estivi col politically correct hanno sdegnosamente respinto e ignorato con una buona dose di puzzetta sotto il naso.