L’aspetto peggiore delle pause per gli impegni della Nazionale, anche peggiore del penoso spettacolo fornito dagli Azzurri contro la Macedonia, è l’emergere inevitabile di voci di mercato, probabili addii, dritte sicure di fonti attendibili utili esclusivamente per riempire qualche articolo quando, tristemente, il campo non fornisce materiale migliore.

Lo scoop stavolta viene da Bergamo. Il direttore sportivo Giovanni Sartori, vecchia conoscenza del calcio veronese, sembra essere giunto al capolinea della sua esperienza all’Atalanta perché destinato a una “grande” del campionato (leggasi alla voce Juventus), e il sostituto – secondo certe voci – potrebbe essere Tony D’Amico, demiurgo di tre campionati eccellenti del Verona.

È una notizia che getta scompiglio nell’ambiente gialloblù. Il diesse pescarese ha segnato le ultime brillanti salvezze dell’Hellas grazie alle sue intuizioni e le sue scommesse vinte, ha dato una svolta rispetto al predecessore Fusco ed è diventato in pochi anni uno dei più apprezzati dirigenti della Serie A. 

L’esperienza di D’Amico in gialloblù fino ad oggi è stata un susseguirsi di scoperte insospettabili, di cui alcune esplose in una sola stagione come Rrahmani e Amrabat, giovani prodotti del vivaio valorizzati sia tecnicamente sia economicamente e dimostrazioni di coraggio nel sapersi mettere in discussione. Come in occasione del rapido benservito dato a inizio stagione – dopo sole tre partite – a Mister Di Francesco. 

Il diesse, in tutto questo, in “soli” tre anni ha posto le basi per un solido progetto tecnico e, per quanto nessuno sia del tutto insostituibile, la sua partenza porterebbe ombre di profonda incertezza sul futuro del club. 

Lo stato mentale del piccolo cabotaggio

Che i rumors siano fondati o meno, la certezza è che il Verona e i suoi tifosi, in questa fase di grandi soddisfazioni sul campo, siano destinati a rassegnarsi a perdere ogni anno i protagonisti di quei successi. È il destino delle piccole, si dirà. Il calcio è così. Le provinciali devono sempre monetizzare quando possibile, le grandi squadre vogliono sempre allungare la panchina, e i procuratori preferiscono vedere i propri assistiti in tribuna a San Siro che in campo al Bentegodi. Niente di nuovo.

Tralasciando l’amarezza nel vedere le categorie del realismo e della rassegnazione entrare amaramente nel campo della passione, la voce sul possibile addio di D’Amico porta con sé un nuovo spunto di riflessione: ancora una volta a portare via i gioielli da Verona non è una delle solite big, ma un club che fino a cinque anni fa si trovava in una situazione sportiva molto simile a quella dell’Hellas. 

Oggi, però, l’Atalanta è a pieno titolo tra le big della Serie A, mentre a Verona il piccolo cabotaggio sembra una sentenza divina. Ma che cos’ha Bergamo più di Verona?

Cos’ha Bergamo più di Verona?

Certamente Percassi, il patron Bergamasco, aveva delle possibilità economiche molto superiori a quelle di Setti anche prima che la squadra si stabilizzasse ai piani alti della classifica e diventasse una presenza fissa nelle coppe europee. È vero anche che il settore giovanile dell’Atalanta rappresenta da decenni un’eccellenza in Italia e ha generato un flusso continuo di talenti per rafforzare il club dal punto di vista tecnico ed economico.

Attenzione però a non crearsi alibi. Se da una parte le finanze di Percassi valgono circa dieci volte quelle di Setti, dall’altra è bene ricordare come il club bergamasco sia economicamente indipendente. Dal 2015 al 2020 l’Atalanta è passata da una perdita di 1,9 milioni a un attivo di 51 milioni, ha comprato lo stadio comunale cominciandone la ristrutturazione e ha portato il proprio fatturato da 74,3 a 241,9 milioni di euro l’anno. Cos’è cambiato nel frattempo? Semplice: i risultati.

Cavalvare l’onda

Prima dell’arrivo di Gasperini, nel 2016, l’Atalanta lottava nella parte destra della classifica, con due retrocessioni a referto negli anni duemila. Eppure il settore giovanile era già il fiore all’occhiello della società e rappresentava ben più di oggi il bacino da cui la prima squadra attingeva i suoi talenti. Avere un settore giovanile da dieci e lode certamente è importante, ma non è dunque una garanzia di successo per il club.

È con l’arrivo del Gasp che cambia tutto. Come riporta la rivista 11:

“Quando il tecnico piemontese è arrivato a Bergamo, nei piani della dirigenza e della proprietà forse c’era il – solito – percorso di crescita graduale, fatto di attenzione ai bilanci e continuità tecnica e valorizzazione dei giovani. Solo che poi le cose sono andate molto più velocemente, soprattutto sono andate benissimo.”

Da: 11 – L’Atalanta dei giovani italiani non esiste più

Le idee di calcio e l’alchimia perfetta tra tecnico, squadra e città hanno portato a risultati oltre le aspettative, e da questi risultati è partito il circolo virtuoso che conduce a fatturati vertiginosi, stadio di proprietà e considerazione da big in Italia e all’estero. L’ingrediente fondamentale, il comburente di questa miscela miracolosa, è il coraggio. Il coraggio di non rinunciare ai sogni per svendere tutto al primo segno di successo, il coraggio di tenere vivo un progetto quando le condizioni sono giuste, il coraggio di sognare in grande

Cosa sarebbe successo se Percassi, dopo il quarto posto del 2017 avesse incartato ogni singolo elemento di quel successo e l’avesse trasformato in plusvalenza, cominciando ancora una volta da zero? Avrebbe incassato una frazione dei guadagni che la squadra sta facendo oggi grazie alla continuità del progetto e avrebbe rischiato di ritrovarsi catapultato nella mediocrità. 

Se le grandi corazzate per vincere hanno tasche profonde e perdite da capogiro, per le squadre più piccole la sostenibilità del progetto sportivo viene dai risultati. Migliori i piazzamenti, più grassi i diritti televisivi, maggiore la visibilità dei giocatori, più ricche le plusvalenze mirate. Se ci sono competenza e talento, è il campo ad arricchire il club. E Setti questo lo sa bene.

Nessuno è indispensabile

Verona non ha nulla da invidiare a Bergamo. La città ha fame di calcio e non aspetta altro che si creino le condizioni per un progetto di successo e stabilità. Setti, in questo nuovo corso sta andando nella direzione giusta, ha saputo circondarsi di competenze importanti, ha monetizzato su chi poteva essere rimpiazzato senza rinunciare alla qualità, ha impresso al club un’identità forte. Ora non resta che fare il salto definitivo: non aver paura di sognare in grande e saper riconoscere l’opportunità che queste ultime tre stagioni hanno creato.

Questo non significa che non si debba cambiare nulla, sia chiaro. Che alla guida del progetto sportivo ci sia D’Amico o un altro diesse poco importa, perché in fondo anche i direttori si cambiano come si possono cambiare gli allenatori. Sono scelte della società e non resta che dare la fiducia che si sono guadagnati.

Provincia e provincialismo

Se D’Amico vuole andare all’Atalanta che vada pure, se Setti vuole vendere Barak, Caprari, Simeone, Tameze e Casale, che lo faccia. Se Tudor volesse tornare alla Juve per rimpiazzare Allegri, buon per lui e per la sua carriera.

Qualsiasi scelta, per quanto dolorosa, può essere accettata se alle spalle c’è una visione e il progetto di dare a Verona tutto ciò che la città merita. Ciò che non si può tollerare è la rassegnazione fatalista. La convinzione che il Verona non possa andare ancora più in alto. L’idea che questi anni meravigliosi siano già stati un miracolo e di fronte a un miracolo non si chiede di più. Sperare oltre sarebbe peccare di hybris. Meglio incassare le fiches e riprovarci un’altra volta.

L’Atalanta è diventata una big in cinque anni, oggi viene a fare shopping a Verona e ha tolto gli alibi alle provinciali dimostrando che provincia – volendo – non implica provincialismo. L’Atalanta è diventata una big in cinque anni e il Verona, con coraggio e competenza, può fare altrettanto.  

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