Quando si entrava al PalaOlimpia per una partita della  Scaligera Basket, ci si sentiva al centro del mondo. Non so dire se sia stata l’età, l’adolescenza che tutto tende a rendere estremo (sia esso amore, odio, venerazione o qualsiasi altro sentimento) o se sia stato a causa dei ruggenti anni Novanta in cui eravamo immersi. Dentro al Palazzetto ognuno diventava spettatore privilegiato di un evento del quale percepiva l’atmosfera elettrizzante: la conseguenza di questo coinvolgimento emotivo totale e appagante era tifare a squarciagola incitando anche l’ultimo dei panchinari che assurgeva a idolo delle folle.

È stato così per una intera generazione di veronesi che ha assistito all’epopea di un team vincitore di una Coppa Italia militando in serie A2, caso più unico che raro non solo nella pallacanestro, una Coppa Korac e una Supercoppa Italiana. Per una realtà provinciale fu davvero una decade dorata che forse nemmeno l’Hellas Verona del calcio seppe avvicinare negli anni Ottanta. Per molti veronesi sentire nominare oggi i capitani di allora quali Dalla Vecchia o Savio, americani di spessore umano e tecnico come Schoene, Kempton, Williams, Iuzzolino o altri passati da Verona, allenatori come Bucci, Marcelletti, Mazzon, è un colpo al cuore, un momento di commozione difficile da controllare.

Un giovanissimo Davide Bonora, playmaker della Glaxo

Quella epopea, però, non fu una favola a lieto fine: gli ultimi anni di pretesa competitività non furono degni del recente passato, tra probabili scelte sbagliate, un abbandono dei vivai e un dissesto finanziario sempre più incombente. Finì tutto nel 2002 con un fallimento. Eppure, chi c’era, chi prese parte anche solo da spettatore a quelle annate magiche, ancora identifica le singole stagioni targate Glaxo, Mash, Birex o Muller con le rose che a gran voce venivano presentate dallo speaker: ecco allora venire alla mente un Riccardo Caneva che fu un precursore del moderno specialista 3&D (tiri da lontano e difesa) o Damiano Dalfini, il giovane del luogo da promuovere in prima squadra, o infine Davide Bonora, il regista rubacuori. In molti furono atleti non passati alla storia della pallacanestro, ma che gli sportivi veronesi di una generazione ricordano con grande affetto.

Ci si chiede quale fosse la magia di quegli anni, di quelle squadre. È difficile analizzare e offrire spiegazioni, forse perché il fascino dello sport risiede in una buona quota di mistero, di non intellegibile.  Risulta brutale, però, il paragone tra quanto avveniva negli anni Novanta e quanto avviene oggi nella pallacanestro veronese, ma per certi versi anche nella pallavolo cittadina (due sport che appassionano parimenti la città e sostanzialmente confrontabili per seguito di appassionati): gli atleti oggi si succedono freneticamente nel corso delle varie stagioni, lasciando solo freddi numeri prestazionali in memoria ai soli analisti, ma oltre questo nulla di veramente emotivo o empatico. Americani o stranieri, perlopiù di modesto pedigree, venduti dai loro procuratori come fenomeni, oppure onesti giramondo al confine tra il professionismo e l’utopia di diventar campioni, si alternano condizionando le sorti delle squadre in cui vengono inseriti in formule quasi a “gettone”. Talvolta manifestano talenti non comuni, più spesso mettono in scacco allenatori e compagni con rivendicazioni contrattuali o la prosopopea tipica di chi lo sport sembrerebbe averlo inventato.

E gli italiani? Stretti nella morsa tra volitivi nonché convenienti atleti comunitari e individuali talenti non adeguatamente ottimizzati nel percorso giovanile, si ritrovano in roster più per regolamenti federali e esigenze di budget che per vero merito. Ogni anno vagano su indicazione dei procuratori alla ricerca della collocazione meno sgradita e meno a rischio in termini di solvibilità delle società a cui si promettono sposi per una stagione, forse due. Morale? Ogni anno le società cambiano più di metà squadra, se non a volte l’intero roster, effettuano progetti (se così li possiamo chiamare) in cui l’unico obiettivo è vincere presto, se non subito… come se le vittorie fossero frutto di una operazione in stile puzzle, tra le figurine dei giocatori e non viceversa frutto del lavoro in palestra, dell’alchimia che si crea tra persone di diverse culture e giovani spesso sradicati dai luoghi natii. Vincere, però, spetta ad uno soltanto e quando l’obiettivo è solo primeggiare, il fallimento sportivo ne è la naturale e probabile conseguenza.

Roberto Dalla Vecchia alza la Coppa Korac a Belgrado (1998)

È deprimente che un appassionato veronese ricordi rose di stagioni ormai lontane un trentennio e che fatichi a riconoscere il volto dei principali giocatori della Tezenis di oggi. Si dice che sia colpa della Sentenza Bosman (Corte Giustizia Europea, 1995) la cui applicazione negli anni ha provocato minori investimenti sui vivai; si dice anche che sia colpa della crisi che ha dimezzato i budget o della libera circolazione dei lavoratori comunitari (principio base della UE, che per alcuni non dovrebbe essere applicato in ambito sportivo). Qualcuno, infine, sentenzia che siano queste le leggi del mercato attuale e queste le inevitabili conseguenze. Balle: il tifoso oggi non ricorda, non prova affezione, perché – semplicemente – non si sa progettare, programmare, attendere che dalla semina passi un fisiologico periodo prima del raccolto; i giocatori se ne vanno in un battito di ciglia con la conseguenza che lo spettatore non ha il tempo materiale per creare un legame con i suoi potenziali idoli. Prevale la cultura della fretta: non si vince subito? Si cambia tutto. Forse in fondo non si sa più nemmeno promuovere il prodotto sportivo come viceversa seppe fare la Scaligera Basket in quegli anni. In tempi in cui risulterebbe impossibile per una società di A2 assoldare l’equivalente dello Schoene di allora, ancor più evidenza e rilevanza andrebbe rivolta ai vivai, all’insegnare sport ai giovani, investendo con lungimiranza sul territorio, non semplicemente assemblando “prime squadre” con veloci e superficiali accordi con procuratori che piazzano tre fenomeni, in realtà ronzini, al prezzo di un purosangue o allestendo giovanili per onor di firma.

Le grandi squadre, quelle vere, sono sempre state costruite in anni di faticoso e fortunato lavoro con la politica dei piccoli passi e quasi mai gloria sportiva fu raggiunta volendo sbancare subito il Casinò. I tifosi vogliono le vittorie, ma ambiscono al veder emergere l’umanità dei giocatori, adorano il campione con lo sguardo sfigurato della fatica, osannano la fedeltà ad una maglia e richiedono atleti in cui identificarsi. Gli appassionati, gli sportivi, bramano per veder giocare giovani uomini che cadono e poi risorgono, non automi “timbra-cartellino” o decadenti professionisti di un mondo ormai lontano. Vorrebbero, infine, degli uomini capaci di creare squadra, perché vedere giocare una squadra vera è uno spettacolo magnifico, a prescindere dal risultato.