«La Coppa Davis? Penso che così com’è non abbia futuro. Credo debba cambiare formula e diventare un grande evento racchiuso in una decina di giorni in autunno, quando le fitte maglie del calendario ATP si allentano. Chiaro che andrebbero riviste anche le regole,  sarebbe impossibile giocare un simile torneo sulla distanza dei cinque set». Ce lo disse Adriano Panatta, uno che la Davis l’ha amata per davvero, in una nostra chiacchierata un paio di anni fa.  Buon profeta. 

L’insalatiera d’argento che lo scorso weekend  la Croazia ha alzato in Francia, è stata l’ultima di una lunga storia iniziata 118 anni fa. Quella che il prossimo anno sarà ricoperta d’oro dai capitali del calciatore catalano Piquè e del milionario americano Ellison, ne porterà solo il nome e nient’altro. Andrà in scena a Madrid e nell’arco di una settimana saranno 18 le squadre a contendersela. I match? Due singolari e un doppio sulla durata dei tre set. La tradizione se la sono insomma inghiottita i dollari. Così va il mondo. Dwight Davis, lo studente di Harvard che le diede vita, si starà come minimo rivoltando nella tomba. Eppure come dimostrano le parole di Panatta, la svolta era nell’aria. Nella schizofrenia del circuito ATP, la Coppa Davis era vista ormai come qualcosa di vecchio e superato dall’incedere del tempo, un pezzo d’antiquariato da riporre in soffitta. L’insofferenza dei giocatori (soprattutto i Big) verso un’ insalatiera il cui argento si era fatto sempre meno luccicante era palese. Se i mondiali di calcio vanno a far gruzzolo in Qatar, se la Coppa America si è venduta alla tecnologia e del suo antico fascino rimane ben poco, non ci voleva molto ad intuire che le mani sulla Davis prima o poi qualcuno ce le avrebbe messe.

La nazionale rumena, finalista a Bucarest nel 1972

Se ne va via un pezzo di storia. Epici confronti tra nazioni, corride in catini infuocati in ogni angolo del mondo. Per una volta in palio non c’erano i ricchi montepremi e le classifiche dei giocatori, ma onore e appartenenza. Valori ahinoi desueti. In un sport dai connotati spiccatamente individualisti come il tennis, la Davis è stata per lungo tempo il bagliore di una stella polare. Lo era grazie al suo essere qualcosa di marcatamente diverso, unico, così affascinante da accendere il falò dell’emotività popolare anche in chi alla racchetta da tennis non ha mai dato del tu. Stadi trasformati in torcide, e giù nel rettangolo duelli rusticani sul filo dei nervi. Esempio ne fu la finale del 1972, quando nel fortino di Bucarest, Tiriac e Nastase escogitarono ogni mezzuccio (continui colpi di tosse del pubblico quando a servire erano gli avversari, righe di gesso cancellate, fino ai massaggi di un raccattapalle a Tiriac colto dai crampi) e aizzarono la folla pur di mandare fuori giri gli americani. In quei tre giorni Stan Smith si dimostrò un uomo di granito, più forte anche delle scorrettezze: vinse i suoi due singolari e il doppio trascinando così gli Usa alla vittoria.

1976, gli azzurri sollevavo la coppa a Santiago

Cosa che a noi toccò nel 1976, in Cile nella tana del dittatore Pinochet. Il posto giusto, tanto eravamo nettamente più forti, ma nel momento sbagliato, ospiti di un regime spietato che aveva incenerito con brutalità ogni traccia di diritto umano: nel 1974 l’India si era rifiutata di giocare la finale contro il Sudafrica in segno di protesta contro l’Apartheid. Noi non facemmo altrettanto. Si scatenarono feroci polemiche tra chi si opponeva alla trasferta e chi difendeva l’autonomia dello sport dall’invadenza della politica. Nicola Pietrangeli capitano, che da giocatore quel sogno lo aveva visto svanire già per due volte, si batté come un leone e riuscì alla fine a portare la squadra oltre oceano. Grande merito ebbe anche l’ambasciatore italiano a Santiago, Tomaso de Vergottini; sfruttando la questione della Davis, intavolò con le autorità cilene un’estenuante trattativa che gli permise di proseguire la sua azione umanitaria a difesa dei perseguitati che avevano trovato asilo nella nostra ambasciata. Gli azzurri partirono in clandestinità. Al rientro a Fiumicino con la Davis trovarono quattro parenti e un paio di fotografi ad attenderli. Uscirono da una porta secondaria: fuori c’era infatti un manipolo di femministe inferocite pronte ad accoglierli a lancio di uova.  Animi surriscaldati, cose da anni ‘70.

La Davis, come altri grandi eventi sportivi, è stata soprattutto un grande romanzo generazionale. Conservate pure quelle pagine gelosamente. Non torneranno più. Il fattore campo era il valore aggiunto su cui la Coppa Davis ha edificato il suo incommensurabile fascino. Tutto è finito quando lo scorso mese di agosto il presidente dell’ITF David Haggerty ne ha certificato il futuro. Va riconosciuto che gli ultimi anni avevano comunque visto un progressivo declino; si poteva metter mano senza arrendersi alle dinamiche imposte dallo showbiz? Forse, ma per come gira il mondo attuale dello sport e soprattutto un movimento legato al denaro com’è il tennis, crediamo onestamente di no. Vedremo allora che ne sarà. Per il momento, pensando al sogno di Dwight Davis, l’unica cosa che proviamo è solo un’infinita e malinconica nostalgia. La verità è che ci manchi già, cara vecchia Coppa Davis. Ci domandiamo: e ora che ne sarà di te…?