L’edizione XXXII delle Olimpiadi è in partenza a Tokio con un anno di ritardo a causa della pandemia. Un evento unico in cui le principali discipline sportive, tutte insieme, per un paio di settimane propongono al mondo intero gestualità e prestazioni d’eccellenza, per quello che dovrebbe essere un inno allo sport e ai suoi valori. Una rassegna che, dagli albori dell’antica Grecia, si dice abbia interrotto guerre e conflitti, nel nome di quel tanto sbandierato spirito olimpico, basato sull’incontro tra culture diverse, sulla fratellanza tra popoli, sulla pace. Certo, anche sulla sfida, sul duello, ma in un ambito, quello sportivo appunto, in cui vincitori e vinti poi, alla fine, si stringono la mano.

Oggi esiste ancora lo spirito olimpico? Di sicuro alberga nell’atleta, meglio se dopolavorista, che sa di gareggiare in modo pulito, senza doping. Risiede, poi, nel tifoso che si commuove durante l’inno nazionale con il proprio beniamino sul podio. Anima tutti coloro che sognano e vivono emozioni legate alle gesta sportive. Per il resto, a ben guardare al contorno, lo spirito olimpico si è progressivamente trasformato e modernizzato. Si è persino imbruttito.
Innanzitutto, le Olimpiadi non hanno il potere di fermare i conflitti. Forse, ai tempi dell’antica Grecia, a livello locale era possibile auspicare in un periodo di pace e di esclusiva ostilità sportiva. Oggi, se guardiamo al mondo intero, è davvero miope pensare che per 15 giorni vi sia un “cessate il fuoco” globalizzato. D’altra parte, l’idea stessa dell’Olimpiade rappresenta una visione del mondo e della società per certi versi “occidentale”, non avvalorata in modo universale. È risibile, per esempio, pensare di richiedere oggi ai Talebani una pausa nell’avanzata al potere in Afghanistan, quando proprio loro vedono lo sport come uno dei mali assoluti in quanto mezzo di emancipazione.
Viceversa, lo sport in generale, e in particolare l’evento delle Olimpiadi, hanno sempre aiutato regimi e governi ad accrescere la propria popolarità in modo subdolo, apparentemente inoffensivo. Attraverso le prestazioni sportive di atleti il cui corpo è stato sfruttato senza tutela e rispetto alcuno, lo sport è diventato potente strumento di propaganda in mano alle classi dirigenti. I casi sono molteplici. Ne citiamo uno in particolare, ormai avvalorato da documenti, testimonianze e prove: quello del doping di stato della Germania Est anche se la lista potrebbe davvero diventare quasi infinita.

Due campionesse olimpiche della Germania Est (foto YouTube.com)

In ogni caso, lo spirito olimpico anche durante le Olimpiadi di Tokio verrà invocato dai media di ogni lingua e di ogni latitudine. Non potrebbe essere altrimenti, visto che lo sport è stato ormai consacrato, e sacrificato, all’essere mero strumento commerciale. Serve a vendere prodotti e servizi di ogni genere, attraverso lo spettacolo che sa offrire, la gioventù e l’estetica dei gesti, attraverso il gusto e la bellezza della vittoria. Si autoalimenta di introiti legati alle sponsorizzazioni e crea un indotto smisurato, talmente grande dall’aver condizionato l’avvio stesso delle Olimpiadi, osteggiate dalla popolazione giapponese.
Logico che, in questo contesto, ogni sconfitta assai di rado contribuisca a favorire le vendite e pertanto la conseguenza è stata il necessario passaggio dal dilettantismo al professionismo, dal voler vincere al dover vincere. Appare evidente, in conseguenza, che ci si trovi di fronte a un ulteriore equivoco. Dove troviamo, infatti, lo spirito olimpico in un atleta che dedica ogni ora della sua meglio gioventù ad allenarsi, sommerso di sponsor da capo a piedi, tracciato quotidianamente, dall’alimentazione ai bioritmi, per essere una macchina perfetta consacrata alla massima performance? Qualcuno potrà obiettare che le Olimpiadi offrono spazio a tutti gli sport, anche a quelli ben lontani dal professionismo esasperato a cui si è accennato. Vero, ma rappresentano una minoranza che produce belle storie ogni quattro anni e che è perfettamente funzionale ad alimentare la bufala, a far credere che ancora oggi esistano gli Abebe Bikila che a Roma 1960 corse scalzo, e vinse con record, la maratona. Le belle storie esistono anche oggi – vedasi l’olimpionico Niccolò Campriani che, in veste di allenatore, guida a Tokio atleti rifugiati – ma la sensazione è appunto che facciano parte di una narrazione più complessiva che necessita sia dell’Usain Bolt di turno, che dell’ultimo da sbattere in copertina per ricordare a tutti che in fondo siamo alle Olimpiadi. A guardare solo Bolt, infatti, ce ne saremmo tutti dimenticati.

Questa edizione dei Giochi olimpici però assume un’ulteriore valenza, in quanto simbolo di ripartenza e di unione dopo una pandemia che ha chiuso frontiere e impedito la vicinanza tra individui. Lo dice il Presidente del Coni Giovanni Malagò: “Sono i Giochi più importanti della storia”, alimentando in modo enfatico le suggestioni della vigilia. Può essere che abbia ragione, anche se dubitiamo che la rilevanza di Londra 1948 non possa minimamente essere oscurata da Tokio 2020.
 
Saranno pure i Giochi più importanti della storia, ma alla fin fine quello che interessa agli alti dirigenti dello sport sono le medaglie. Per il nostro Paese saranno 41 come previsto con interessato ottimismo, dallo stesso Malagò? Saranno di meno più realisticamente? Quel che è certo è che troppo spesso si valutano le spedizioni olimpiche attraverso le medaglie, per lo più garantite da atleti generazionali che rappresentano eccellenza ed eccezione di un movimento, mai attraverso i risultati medi dei partecipanti. Una semplificazione difficile da accettare, specie se quasi mai accompagnata da valutazioni professionali e approfondite sullo stato di salute dei vari sport e dei loro movimenti.
“Venghino signori, venghino. Cominciano le Olimpiadi, vendonsi sogni e illusioni”. E, perché no, anche qualche bella storia sul serio. Che la fiamma inizi ad ardere, lo spettacolo abbia inizio!

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