Un’estate che doveva essere come tutte le altre, dopo la maturità, con le vacanze, i progetti per l’università, la libertà ritrovata. E invece, per Matilde Dalmasso, 19 anni, cuneese di origini veronesi, è stato l’inizio di un percorso difficile, segnato da una diagnosi dura e da mesi di cure. Ma anche da una maturazione profonda e da una consapevolezza che oggi la porta a raccontare pubblicamente la sua storia, per sostenere chi come lei ha affrontato una malattia rara. A settembre inizierà a studiare a Verona, con una nuova scala di valori e una forza che arriva proprio da ciò che ha attraversato.

Matilde, nelle ultime settimane ti hanno intervistato molte testate, alcune anche di rilievo nazionale. Immagino sia anche questo un “lavoro” impegnativo, giusto?

«Sì, senza dubbio. È impegnativo soprattutto perché sto raccontando la mia storia, che per me è piuttosto dura e mentalmente faticosa. Però sono felice, perché lo faccio per una buona causa e il messaggio è arrivato a molte persone.»

Partiamo subito dal punto centrale: l’importanza di donare o supportare chi si occupa di ricerca, soprattutto per le malattie rare come la tua. Purtroppo, mentre per le patologie più comuni esiste una maggiore consapevolezza e sostegno economico, per quelle rare questo supporto è molto più limitato. È davvero così?

«Sì, certo. Meno fondi vengono destinati alla ricerca su queste malattie. Il mio tumore, ad esempio, ha una casistica di quattro casi su un milione: molto, molto pochi. All’inizio i medici mi dissero che le cure esistono, ma ci sono meno opzioni rispetto a tumori più studiati. E quindi ci sono meno piani da seguire. È giusto che anche chi ha malattie con meno casi abbia le stesse possibilità, perché una vita vale come un’altra, e una malattia è come un’altra».

Quindi, al di là del tuo percorso personale, hai deciso di raccontarti perché è importante che ci sia consapevolezza e pari dignità nella cura.

«Sì, assolutamente. Il motivo per cui mi sono esposta, oltre che per raccogliere fondi, è anche per sensibilizzare sul fatto che questo tipo di malattie esistono e possono colpire chiunque, anche i giovani. Volevo far capire che non sono solo “cose che capitano agli altri”. Quando succede a te o a qualcuno vicino, cambia tutto».

E in effetti tu avevi appena affrontato l’esame di Maturità, stavi per partire per le vacanze, per poi iniziare l’Università… era tutto normalissimo per una ragazza della tua età. Com’è cambiata Matilde in quest’anno?

«Sicuramente sono cambiata molto. Prima di tutto è cambiata la mia visione delle cose e la scala delle priorità. Ho capito che senza la salute al primo posto, tutto il resto perde significato. Ora affronto i problemi con uno sguardo diverso, li rimetto in prospettiva.

Valorizzo molto di più le cose semplici: i dettagli, le persone care, l’affetto. Dall’ospedale si può fare poco, e senti la mancanza di tutto ciò che prima facevi senza pensarci, anche una semplice passeggiata. Sono cresciuta tanto, ho imparato molto. In fondo sono sempre io, ma un po’ più matura.»

E comunque con la voglia di vivere ciò che vivono i tuoi coetanei, ma con una consapevolezza diversa. Questo, in fondo, è un insegnamento anche per chi non ha vissuto quello che hai passato tu.

«Sì, ora apprezzo davvero i piccoli momenti di ogni giorno. È importante goderseli finché ci sono. I ricordi e i momenti felici danno forza, anche quando attraversi momenti difficili o ti senti chiusa in te stessa. Adesso li osservo con uno sguardo diverso.»

Torniamo un attimo al centro di ricerca che ti ha curata: Candiolo, in provincia di Torino. Vuoi dire qualcosa sui medici che ti hanno seguito?

«Certo. Sono andata subito a Candiolo, dove ci sono oncologi specializzati in sarcomi e tumori rari. Mi hanno presa in carico immediatamente: tre giorni dopo la visita ero già ricoverata. Mi hanno seguita con grande professionalità. Ho trovato molta empatia nei medici e una profonda umanità. Gli infermieri riuscivano a strapparti un sorriso anche nei momenti più difficili. Mi sono affidata completamente a loro, e hanno fatto davvero un lavoro straordinario».

Come stai in questo momento?

«Sto abbastanza bene. La parte più dura è passata: sette mesi di chemio, due di radio. Ora faccio la chemioterapia per via orale, che tollero molto bene. Quindi sto bene e riesco anche a concedermi qualche piccola vacanza».

E riesci a vivere, per molti aspetti, una vita “normale”?

«Sì, piano piano sto riprendendo la normalità. Non è semplice, perché non si torna alla vita di prima né a quella durante la malattia: è un nuovo inizio. A piccoli passi, ma sì, ora riesco a vivere molto più normalmente, e ne sono sollevata».

A settembre inizierai finalmente a studiare all’Università di Verona, con un anno di ritardo…

«Sì, inizialmente avevo scelto Economia, ma sto valutando il passaggio a Giurisprudenza. In questo anno ho avuto tempo per riflettere su cosa voglio davvero. Non penso farò l’avvocato, ma credo che questo percorso apra molte porte e anche molto la mente. Comunque, la certezza è che studierò a Verona».

Prima di tutto questo avevi una grande passione per l’equitazione, che hai per il momento dovuto accantonare. Pensi che riuscirai a riprenderla?

«Diciamo di no, almeno per ora. La malattia e le cure hanno lasciato qualche strascico. Nel mio caso la massa era vicina alla colonna vertebrale e al bacino, e le ossa sono ancora fragili. L’equitazione non è consigliabile. Ma in futuro, magari non a livello agonistico, conto di rimettermi in sella».

Volendo chiudere con un messaggio: viviamo ogni momento con consapevolezza e sosteniamo la ricerca, soprattutto per le malattie rare, perché nessuno deve restare senza una possibilità.

«Esattamente. Sono cose che succedono, davvero. Bisogna dedicare attenzione a queste malattie, a queste persone. C’è bisogno di piano A, piano B, piano C e di tanti altri piani di riserva. Perché tutti devono avere una seconda chance».

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