È più felice quell’uomo che crede che la sua città natia sia il mondo intero, di quello che aspira a divenire più grande di quanto la sua natura gli consenta.

Frankenstein o il moderno Prometeo, Mary Shelley, 1818

Una landa gelida completamente desolata, una nave bloccata nel ghiaccio, il capitano urla, i marinai sono esausti, bisogna disincagliare, non c’è tempo… Uno scoppio lontano e un altro, un uomo ferito viene trovato sul ghiaccio bianco e ambra, issato a bordo. Un attimo e un rumore fondo, un urlo “Victor!” Una enorme ombra nera si intravvede lontano, si avvicina, il Mostro è già qui.

Un Frankenstein diverso dagli altri

Dal tono gotico e anche un po’ horror, “Frankenstein” di Guillermo Del Toro – che, insieme ad Alfonso Cuaròn e Alejandro González Inarritu fa parte della triade di registi messicani emigrati negli States – è un film lungo e a volte ingombrante, affascinante e carico di pathos, diverso dagli altri proposti negli anni.

Esce dallo schermo, esce dagli schemi per essere solo suo, una cifra riconoscibile, come entrare in un altro mondo. “Era molto tempo che volevo fare un film sulla Creatura, meglio che lo abbia fatto ora”, spiega il regista alla conferenza stampa alla 82esima edizione della Mostra internazionale d’Arte cinematografica di Venezia.

Il mondo di Victor e della Creatura è un mondo ottocentesco, pieno zeppo di simboli, i set sono costruiti su misura e creano sfumature tra un colore ambrato e una mescolanza tra reale e irreale. Il dramma è forte: Victor, il creatore, è andato oltre, ha creato un essere assemblando pezzi di cadaveri per voler ricreare la vita e rendere l’essere immortale.

Foto di Cristiana Albertini

Chi è lui per potersi mettere al posto di Dio? Del Toro conferma il dilemma, si definisce credente: “Volevo far vedere l’urgenza del messaggio, e io parlo nel cinema con parabole, parlo di oggi con una parabola, dato che sono cattolico parlo con parabole non con un linguaggio diretto della realtà. La Creatura è grande, una sorta di mostro con una grande forza fisica ma con un grande senso di solitudine”.

Un dramma sull’identità e il potere

Tu hai dato la vita e poi mi hai lasciato a morire. Chi sono io? Il dramma è anche di Victor, il creatore, che tenta di distruggere la sua creatura perché si rende conto della gravità del suo esperimento. E allora l’unica risposta è il perdono “per restare umani in un momento in cui tutto viene polarizzato”, la capacità di pentirsi e di perdonare è una delle chiavi del film.

Del Toro racconta anche del rapporto padre/figlio, sia di un padre terreno reale, che di un Padre. E a proposito di questo, stiamo notando come in questa edizione della manifestazione la relazione parentale sia un leitmotiv, in particolare proprio quella tra i padri e i figli, come a mettere in luce un senso di mancanza e, nello stesso tempo, un bisogno di riscoperta.

Con un notevole Oscar Isaac, il creatore Victor, e il grande giovane Jacob Elordi, “Frankenstein” di Del Toro completa la visione del regista dopo le ultime opere “La forma dell’acqua“, Leone d’oro alla Mostra di Venezia 74, e il film di animazione “Pinocchio“.

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