A Mostar c’è il sole. A quasi trent’anni dalla fine della guerra in Bosnia, al parco Zrinjevac splende il sole, i turisti passeggiano sereni, i bambini giocano con i genitori nella zona croata della città, proprio di fronte al palazzo in rovina da cui i cecchini sparavano ai bosniaci. La sensazione distopica dei fiori che crescono sulle macerie di una guerra ormai dimenticata, avvenuta sotto lo sguardo della neonata Unione Europea, è più attuale che mai.

Nel 1992, lo stesso anno della firma del Trattato di Maastricht, che sancì la nascita dell’UE, le truppe comandate da Ratko Mladić invasero la Bosnia, ultimo fronte per la conquista dei Balcani da parte della Repubblica Serba di Slobodan Milošević. Con l’accordo anche della Repubblica Croata di Franjo Tuđman, la guerra per la conquista della Bosnia-Erzegovina durò fino a dicembre 1995, raggiungendo livelli di violenza che portarono all’intervento diretto della NATO nelle stesse safe areas decise dall’ONU.

Il 6 luglio 1995, infatti, Mladić superò facilmente la protezione dei caschi blu dell’UNPROFOR a Srebrenica, la zona di rifugio dei bosniaci musulmani fuggiti dall’assedio di Sarajevo, e uccise oltre 8.000 uomini e giovani, di fronte all’inerzia e all’inadeguatezza delle forze delle Nazioni Unite. Mladić, che già confiscava i peacekeeper dell’ONU prima della strage, superò facilmente le truppe di difesa e compì un genocidio in territorio europeo sotto gli occhi di tutti. Chiamato “il macellaio della Bosnia”, venne arrestato dopo sedici anni di latitanza nel 2011, con la sentenza di ergastolo per crimini di guerra dalla Corte Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, confermata in appello nel 2021.

Studenti dell’Educandato agli Angeli e del liceo Messedaglia a Mostar. Foto di A. Delaini.

Studenti in viaggio a Mostar per conoscere il conflitto dei Balcani

Una storia e una guerra così vicine per geografia e calendario, ma che le generazioni più giovani conoscono poco: per questo è importante l’iniziativa che l’associazione veronese One Bridge To, insieme a Cristina Antonini, ex docente al liceo Fracastoro ed esperta di guerra nei Balcani, ha realizzato con alcune classi superiori. Nelle settimane dal 30 marzo all’8 aprile, infatti, i ragazzi delle quinte del liceo Messedaglia e delle quarte dell’Educandato agli Angeli sono stati a Mostar, in un viaggio di approfondimento che ha permesso loro di conoscere diversi volti del conflitto.

Rijad, presidente del liceo Obala, ha ospitato a Sarajevo le classi dei licei veronesi in visita. Fuggito a 17 anni attraverso un tunnel, ha studiato a Firenze e poi è rientrato. Così come Ines, fondatrice con altre tre donne dell’associazione bosniaca ComPass 071, che ha lasciato Mostar con i suoi genitori insegnanti (papà bosniaco e mamma croata) e si è poi laureata in storia dell’arte. Giovane donna straordinaria e lucidissima nell’analisi, Ines è una delle testimoni chiave del viaggio di istruzione, assieme a Irvin Mujčić, ideatore del progetto Srebreniča – City of hope, che ha accompagnato le classi nella visita al Memoriale di Potočari e poi le ha portate a mangiare a casa di una famiglia bosniaca.

Irvin ha perso il padre e 27 familiari nel genocidio e, insieme alla madre, a un fratello e alla sorella Elvira, che vive in Italia ed è scrittrice e traduttrice (l’ultimo libro di Elvira Mujčić è La buona condotta, pubblicato nel 2023 da Crocetti, ndr), è arrivato in Val Camonica all’età di 4 anni.

Un’immersione nelle vite degli altri

Tornare-Partire-Tornare o Partire-Tornare-Partire non è solo uno slogan per One Bridge To, ma rappresenta un lavoro incessante che dura da anni, fatto di solidarietà e testimonianza, di legami con terre e responsabilità vicine all’Italia. L’attività proposta alle scuole è un’immersione nelle vite degli altri per permettere a ragazzi e ragazze di comprendere l’attualità e il passato nella loro interezza, con tutte le sfumature e le complessità.

Uno scorcio del ponte di Mostar. Foto di A. Delaini.

Al giorno d’oggi, avere l’opportunità di riflettere sui concetti di identità politica, etnica e religiosa, così come sulla presenza e posizione dell’Unione Europea nel mondo, rappresenta un’occasione da non perdere. È fondamentale umanizzare le guerre, nel senso di comprendere che sono fatte di vite singole, e che l’esperienza di chi fugge non può essere giudicata da lontano, ma bisogna avvicinarsi e ascoltare direttamente le loro storie.

Grazie alle insegnanti si può cercare di creare una nuova memoria collettiva, fatta anche dei racconti di chi di solito ne è escluso, come dice Edoardo Garonzi, presidente di One Bridge To, «per dare voce a chi non ce l’ha».

Trent’anni dopo la guerra in Bosnia, la memoria si fa corta e la quotidianità stratifica le immagini e le notizie delle stragi. Ci si chiede quanto tempo ci vorrà perché anche Gaza venga coperta da un’erba brillante.

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