La vittimizzazione secondaria si riferisce ai danni aggiuntivi derivanti da reazioni sociali negative, giudizi o discriminazioni subite da una vittima dopo l’evento traumatico iniziale. In generale essa avviene quando comportamenti e attitudini di individui o della società inducono una persona che ha subito un trauma a sentirsi in colpa o in difetto per il fatto stesso di essere stata vittima.

Gli esempi sono, purtroppo, numerosi: donne che subiscono uno stupro e vengono accusate di “aver provocato” l’aggressore, o uomini derisi per il fatto di aver subito violenze da una donna, persone che si sentino accusate di non essere usciti prima da una relazione tossica o di non riuscire a lasciarsi alle spalle un trauma, e tanti altri terribili casi.

Ci sono stereotipi, credenze e miti diffusi nella società che alimentano deliberatamente questa macchina di colpevolizzazione delle vittime. Tuttavia, è anche importante prestare attenzione a parole e attitudini che, anche se guidate da buone intenzioni, rischiano ugualmente di generare una vittimizzazione secondaria.

Ridurre il trauma a una mera spiegazione razionale

Spesso è difficile vedere e riconoscere abusi anche quando li si subisce in prima persona perché tutto diventa incerto e annebbiato al punto che si finisce per dubitare della propria capacità di comprendere gli eventi circostanti.

Scoprire che questi vissuti nei quali si mescolano confusione e dolore hanno un nome nel vocabolario della violenza è un passo fondamentale per iniziare a intravedere una luce chiarificatrice di cosa è veramente successo.

Per esempio, capire che gli inganni, le punizioni “date per il tuo bene”, la gelosia estrema che sfocia nella possessività e nel controllo asfissiante non sono forme di amore, ma vere a proprie violenze è un passo essenziale per aiutare un individuo che è immerso in una relazione tossica a comprendere l’origine dell’angoscia e della desolazione che lo affligge.  

Se, però, la descrizione dei traumi assume i connotati di una mera spiegazione razionale o didattica si rischia di indurre un senso di inadeguatezza in chi chiede un sostegno.

La persona, infatti, rischia di sentirsi sciocca o, addirittura, stupida per non essere stata in grado di riconoscere quegli stessi eventi che il “sapiente” interlocutore le sta spiegando.

E facendo ciò quest’ultimo assume, inconsapevolmente, una posizione di superiorità riattivando dinamiche gerarchiche di potere.

Non basta quindi dare spiegazioni dei fenomeni che costituiscono esempi di violenza, ma è essenziale dimostrare calore, ascolto attivo e accoglienza per vissuti che sono talmente soverchianti e opprimenti che è difficile immedesimarcisi per chi non li ha vissuti in prima persona.

Facili consolazioni

Non è insolito sentire frasi consolatorie quali “sii forte”, “vedrai che passerà!”, “fatti coraggio!”, “metticela tutta!” che, anche se dette con le migliori intenzioni, spesso hanno invece l’effetto di invalidare il processo di significazione della persona, ossia il modo in cui quest’ultima prova a darsi un senso di quanto successo.

Queste riletture degli eventi possono anche essere erronee e disfunzionali, ma sono pur sempre una parte essenziale della vita psicologica dell’individuo e, pertanto, meritano rispetto e devono essere affrontate con delicatezza.

L’effetto più deleterio di simili banali consolazioni è però quello di veicolare implicitamente il messaggio che il dolore vissuto dalla persona è esagerato e deve essere ridimensionato. Il dolore non può però essere giudicato da altri e quando la sofferenza è più forte non la si può semplicemente accantonare con un “pensare positivo”.

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