L’Italvolley femminile torna sul gradino più alto del podio europeo dopo la doppietta del 2007 e del 2009. Si tratta di un successo quantomai inatteso, non tanto per i valori in campo ma per il particolare momento nel quale è avvenuto. Dopo il flop olimpico di Tokyo, in pochi avrebbero scommesso su questa squadra, per giunta priva anche di Caterina Bosetti e Sara Fahr, infortunate dell’ultima ora. A rendere il successo ancora più eclatante il fatto di averlo ottenuto a Belgrado contro la Serbia, squadra che poche settimane prima aveva eliminato le azzurre dalla corsa a una medaglia olimpica. Bellezze dello sport che in un mese ribalta ogni gerarchia. Mai scontato, mai prevedibile fino in fondo, sempre ricco di storie da raccontare e di spunti di riflessione, validi non solo in ambito agonistico, ma anche nella vita quotidiana. E La vittoria azzurra agli Europei è proprio una di queste, ma per meglio apprezzarla riavvolgiamo il nastro degli eventi e torniamo indietro nel tempo ante Olimpiadi.

Le attese deluse di Tokyo

Davide Mazzanti, coach dell’Italia, e le sue atlete volano verso Tokyo con tante aspettative e qualche malcelato sogno. Ci si attende una medaglia, ma l’opinione pubblica e i media si sbilanciano anche sull’oro. Attorno a questa squadra, ricca di talento e costruita negli anni attraverso non solo il lavoro dei club, ma anche grazie ad ingenti investimenti federali, vedasi Club Italia, c’è molta pressione. I media in primis che cavalcano la stella Paola Egonu, vuoi perché ancora il colore della pelle è capace di fare notizia, vuoi perché l’atleta ha avuto il coraggio di dichiarare i suoi orientamenti sessuali, altro tema che fa scalpore anche quando non c’è alcun gossip da sviscerare, vuoi infine per la sua forza.

Da un punto di vista tecnico sportivo le attese sono giustamente molte perché il team azzurro è completo, gioca una pallavolo moderna e applica un sistema di gioco che, giova ricordarlo, è stato ed è tutt’ora un punto di riferimento nel movimento internazionale. Alla vigilia di Tokyo, il neocapitano Miriam Fatima Sylla si scaviglia. Cosa da poco per certi versi perché l’atleta di Conegliano riesce a scendere in campo alle Olimpiadi, pur non al top della forma. In realtà questo, a detta di molti, è uno degli accadimenti precursori del fallimento olimpico perché rappresenta il classico granellino di sabbia che inceppa un ingranaggio perfetto.

Sylla non trascina come suo solito, la giovane Elena Pietrini la sostituisce, un po’ dentro un po’ fuori dal campo. Insomma, si ha la sensazione che la coperta a Tokyo sia irrimediabilmente corta. Così è. Tutti vengono messi in croce ed è storia di un mese fa. Coach Mazzanti, a cui viene contestato anche il più piccolo sorriso, confuso per futile superficialità quando rappresentava evidentemente altro, è il primo a finire sul banco degli imputati. A torto per larga parte, forse anche a ragione se si discute della programmazione di avvicinamento alle Olimpiadi priva di impegni agonistici di rango.

I social e le atlete, da show a tiro al bersaglio

Egonu e compagne finiscono nella centrifuga social. Tante critiche, ci sta, fa parte dello show e del destino dei campioni, ma quello a cui si assiste è un tiro al bersaglio per larga parte offensivo e senza nessuno spessore tecnico. Sembra quasi preparato a tavolino, in malafede. Il tifoso e l’appassionato critica, come in una classica discussione al bar. Tutto normale e legittimo, ma diventa inaccettabile quando viene sfondato il muro della decenza, con totale mancanza di rispetto umano verso ragazze che per la maglia azzurra sacrificano estati fin dalla tenera età. I buoi dalla stalla sembrano scappare. La squadra che aveva fatto sognare un movimento intero sembra sfaldarsi e implodere. Si ipotizzano i successori di Mazzanti, giudicato al capolinea della propria esperienza professionale. Tra il ritorno da Tokyo e l’inizio degli Europei c’è davvero poco tempo, ma sembra eterno, specie quando Caterina Bosetti, leader della seconda linea, si infortuna e pure Sara Fahr fa solo a tempo ad assaggiare l’atmosfera degli Europei prima del crack al ginocchio.

Eppure, Federazione, staff e atlete non si scompongono. Nessuna dichiarazione al vetriolo, ce ne sarebbe stata l’occasione, nessuna uscita a caldo sanguinosa. Il team, evidentemente scosso dal brutto risultato di Tokyo, non si lascia andare alle sole lacrime, tante, ma studia e analizza. Mazzanti parla poco, ma insiste in alcuni passaggi sul far comprendere che i numeri, se letti con sapienza e buon senso, lasciano intravedere anche cose buone. Ha confidenza con il sistema, conosce le risorse umane di cui dispone, è convinto delle sue idee. Le atlete lo seguono, si fidano delle sensazioni, sanno delineare il loro potenziale, comprendono quale sia la strada per poter tornare ad essere la vera Italia ammirata ad un passo dal successo al Mondiale. In parole povere, hanno spessore umano e un bagaglio tecnico sportivo che non si improvvisa.

Il segreto di una vittoria attesa

Sta qui il segreto di questo Europeo vinto: nella professionalità e nell’equilibrio con cui la squadra ha gestito lo scoramento della sconfitta, con cui ha analizzato la propria performance, con cui ha saputo trovare nuovi accorgimenti per essere una copia ancora più bella rispetto a quella ideale che avremmo voluto vedere alle Olimpiadi. Sì, perché l’Italia della finale europea è una Italia mai vista, ingiocabile per tutti, ancora più offensiva rispetto a qualsiasi altra edizione azzurra, non Egonu dipendente, tatticamente perfetta in campo e in panchina, capace di vincere valorizzando due palleggiatrici, cosa più unica che rara in questo sport. Un successo assoluto, se pensiamo a quanto poco tempo sia servito per cambiare pelle.

Dicevamo delle storie che questa nazionale ha portato con sé. Sarebbero tantissime, ma ne citiamo tre, le principali. Partiamo dalla senatrice Cristina Chirichella, capitano di una volta, quest’estate detronizzata, vuoi per garra, buona ma non ai livelli di Sylla, guerriera come poche, vuoi perché alla data di nomina doveva ancora giocarsi il posto tra le 12 olimpiche. A Tokio è stata spesso pancata. Visto il pedigree e i suoi trascorsi, in molte al suo posto avrebbero potuto presentarsi in conferenza stampa post eliminazione e velatamente adombrare il ruolo e le scelte dello staff, lavandosene le mani. Viceversa, ha scelto la strada più difficile: dimostrare sul campo il proprio valore, dichiarando assoluta fedeltà alla causa e alla squadra. Dimostrando, se c’era bisogno, che il ruolo di capitano lo aveva sempre meritato e che lo meriterebbe pure ora. Perché nelle squadre vere non c’è mai un capitano solo.
Veniamo ora a Ofelia Malinov, palleggiatrice nata praticamente in palestra – suo padre è apprezzatissimo allenatore – e cresciuta attraverso anche ad un cambio di ruolo che l’ha portata in nazionale. In ogni caso quasi mai relegata a fare da spettatrice, troppo matura in età giovanile, troppo adulta e tecnica per metterla in secondo piano. I suoi detrattori, quasi come un mantra, dicono sia forte, ma non una campionessa assoluta. Può anche essere vero, ma non gliene si può fare una colpa. Ha iniziato l’Europeo da panchinara, come se qualcuno volesse dimostrare che una buona parte della colpa di Tokio fosse sua. Balle. Utilizzata in staffetta con Alessia Orro, dalla quale paga forse in creatività, ma rispetto alla quale gode di più feeling con l’alzata per Egonu, specie in finale ha fatto capire che essere registi non significa solo unire talento e applicazione, ma significa soprattutto saper svolgere un ruolo di chimica assoluta in squadra. Obiettivo raggiungibile anche se si appare freddi, glaciali, come da sua abitudine. L’abbraccio tra lei e Orro pochi attimi dopo il successo europeo è la rappresentazione che la rivalità in un ruolo può essere gestita, ma anche che può diventare un valore aggiunto per entrambe le concorrenti e per la squadra.
In ultimo parliamo di coach Mazzanti. Come tutti gli allenatori di nazionale, il suo credo viene cavalcato o velocemente abbandonato da chi l’ha nominato e, come tutti i selezionatori, rimane in carica fino a quando la politica si avvale dei suoi servigi e del prestigio che gli eventuali successi sanno produrre. Tornando in Italia con in tasca i 500.000 € di premio riservati alla federazione vincitrice – che l’organizzazione serba con poca eleganza ha sbandierato alle premiazioni – Mazzarri dovrebbe avere vita lunga, forte anche di un rinnovo già firmato. Siamo sicuri che, dopo un mese di pressioni, dubbi e incertezze, avrà ritrovato quella forza nelle proprie idee, quella serenità di chi ha messo tutto in un obiettivo con assoluta coerenza. E ora, più di prima, ha diritto di sorridere senza che qualcuno possa per lui invocare la forca.

Foto di copertina: profilo Facebook Fipav

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