Come a tutti gli scrittori incompiuti nella mia testa da sempre ronza quell’idea di libro che vorrei essere in grado di scrivere. A pagina undici de Il Bosco del confine (Aboca edizioni, 2020) ho capito che questo era il libro che ho sempre desiderato scrivere.

Non è il solo, ma sicuramente quello più vicino al mio personale vissuto. Tutti i libri che ho inserito nella categoria “libri che avrei voluto scrivere” hanno il sapore della memoria, parlano di una cortina impenetrabile tra un sentire interiore e la difficoltà a portarlo in superficie e hanno a che fare con un qualche est. Questo libro non fa eccezione. 

Federica Manzon, autrice de Il bosco del confine

L’autrice, Federica Manzon, nativa di Pordenone, non è alla prima opera: nel 2008 per Mondadori ha pubblicato Come si dice addio, seguito nel 2011 da Di fama e di sventura, che le ha assegnato sia il Premio Rapallo Carige per la letteratura femminile sia il Premio Campiello Selezione Giuria dei Letterati. Curatrice dell’antologia I mari di Trieste, per Bompiani nel 2015, due anni dopo con Felitrnelli ha pubblicato il romanzo La nostalgia degli altri.

Quando la frontiera ad Est era l’orlo di un mondo diverso

Il Bosco del confine è ambientato nel 1979 e la storia prende avvio sul monte Kobilnik, nell’attuale Slovenia, e posto vicino ad un confine che non esiste più –  quello tra Italia e Jugoslavia – ma che a lungo ha segnato la distanza tra noi e i Paesi al di là del Muro.

La voce narrante di quasi tutto il racconto è quella di Schatzi e il libro ripercorre la storia intorno al confine che identifica la terra in cui è cresciuta. Un confine che impara a conoscere nelle camminate nei boschi con il padre, pacifista internazionalista di origini slave di cui non ama parlare. Sulle tracce di quel confine il racconto ci guida, assieme a Schatzi e suo padre, sulle strade di una Jugoslavia che cova i sentimenti dell’ultima guerra d’Europa.

E’ un libro intenso che svela pieghe di riflessione infinite come solo le vie in mezzo ai boschi permettono di fare. E’ una storia di confini, di montagne, di neve, di est, di Balcani, di guerra e di percorsi che si inalberano dai sentieri delle montagne fino alle strade di Sarajevo. C’è la Sarajevo di prima, quella delle Olimpiadi del 1984, quindi la Sarajevo dell’assedio, e la città di oggi. E sarà proprio lei a svelare l’essenza di un confine, anche quando questo non è visibile.

Trieste, tra geografia e storia

La protagonista del libro, l’autrice – e anche io – siamo nate sul lato ovest di quel confine e l’abbiamo visto cambiare fino quasi a dissolversi. Ma per quanto provi a superarli, i confini restano come ferite inflitte a una memoria collettiva che va oltre il presente. Ci pensavo spesso nei miei anni a Trieste – città d’origine della protagonista dell’opera e che l’autrice dimostra di conoscere bene nella sua essenza. Quando vivevo nel capoluogo giuliano il confine istituzionale, quello vero e proprio, era già un ricordo piuttosto sbiadito, ma a Trieste rimane impossibile non averne continua coscienza.

Nei boschi sopra le valli del Natisone è facile dimenticarlo, ti distrai, sbagli strada e sei già in Slovenia, in cima al Matajur non lo vedi, perso e immerso in quella linea che divide la montagna, la pianura e nei giorni limpidi anche il mare. A Gorizia, cittadina che vive d’orgoglio mitteleuropeo, è addirittura crollato un muro, ma a Trieste lo vedi sempre. E’ lì dietro la città, tra il Carso e il mare. Trieste è il confine, tra la storia e la geografia.

A Sarajevo non c’è alcun confine politico. Sarajevo, come Trieste, è un confine.

Sarà per questo che la protagonista, in un passaggio estremamente poetico, trova a Sarajevo il suo posto del mondo:  “Ti è mai capitato di arrivare in un posto e di sentire che potresti esserci nato?”.

Schatzi si identifica con l’est (cosa che piace fare anche a me), ma che cos’è l’est? Non siamo tutti l’est di qualcuno e c’è sempre qualcuno più ad est di noi?

Quando si andava in “Jugo”

Per molti anni la Jugoslavia è stata il nostro est, il mio in particolare.

Nel 1991 avevo sette anni, il confine distava pochi chilometri da casa mia, la Jugoslavia era stato il primo paese straniero in cui avevo messo piede, in maniera inconsapevole perché era davvero dietro l’angolo. In Jugo (così la chiamavamo) ci andavamo spesso, a fare benzina soprattutto, ma anche a comprare la carne perché – di là –  era più buona, mi chiedo ancora oggi se fosse l’allure di comunismo a darle un sapore migliore. Il mio primo ricordo della guerra in Jugoslavia è che abbiamo smesso di fare code infinite per fare benzina.

Fino a quel momento della guerra sapevo quello che raccontavano i nonni su quelle del passato e in merito alle guerre “attuali” che avevano a che fare con pozzi petroliferi in fiamme, deserti e molte cose per me lontanissime.

La Jugoslavia, invece, non era lontanissima, avevo fatto il bagno nel suo mare, avevo dei legami e dei ricordi e ore infinite di coda al confine, era qualcosa che aveva sempre fatto parte della mia allora breve esistenza. Avevo sette anni e a modo mio capii che alla guerra ci si poteva arrivare in Ritmo.

Stava lì, lontano anni luce dai favolosi anni ‘90 ma vicinissima, appena oltre il confine, fuori dalla nostra porta. Passano gli anni ma se sento la parola guerra il mio primo pensiero va a Sarajevo.

Il passato che l’Europa non ha compreso

Eppure ce ne siamo dimenticati in fretta. Come se Sarajevo non ci riguardasse, come se fosse una cosa loro, una lite tra famiglie che vivevano sotto lo stesso tetto. Forse abbiamo scaricato la colpa sulle conseguenze di quel comunismo che rendeva la carne così buona. Forse è stato più semplice così.

Eppure Il bosco del confine parla molto anche di Europa e di un passato recente che non abbiamo ancora metabolizzato. Di quella striscia di terra che rimane il cuore sanguinante dell’Europa, con ferite che ignoriamo e che non siamo stati in grado di curare.

Tra le mie poche fedi c’è quella dell’Europa, ma da fondamentalista agnostica ne riconosco ogni suo difetto e quel suo essere sempre incompiuta, troppo instabile, ultimamente molto persa in se stessa, eppure una delle idee più belle che gli uomini di questo vecchio continente abbiano mai avuto. Certo sulla nostra Europa grava un passato lungo e ingombrante fatto di sangue e di molti confini che non potrà mai dissolversi e le questioni sono infinite.

MI chiedo sempre però se i Balcani siano quel punto di sutura da cui dovremmo ripartire, tornare a parlare di Sarajevo, della Bosnia, di cosa è successo nella ex Jugoslavia. Penso, spesso, che sia questo il passo fondamentale per costruire quell’identità che da troppi anni stiamo ricercando.

Leggere questo libro è un ottimo spunto per farlo. I percorsi più ardui iniziano sempre dai boschi, ma è l’unico modo per arrivare in cima.