Ricucire distanze e luoghi: per una quotidianità condivisa”. Questa la mostra che aprirà il prossimo 23 febbraio al Museo Africano di Verona. L’esposizione rappresenta il punto d’arrivo di un progetto nato nel 2018, promosso dall’Università degli Studi di Verona nell’ambito del Joint Project 2018: Mending Distances, Connecting Places: Sharing Everyday Life, coordinato da Anna Maria Paini, docente di Antropologia del dipartimento di Culture e Civiltà.

Venerdì 19 febbraio si è tenuta l’inaugurazione della mostra, che ha visto gli interventi di Anna Maria Paini, l’antropologo Sabaudin Varvarica, Flavio Castellani di Verona Off, Mariuccia Bussolin di Ad Maiora, il giovane sarto Masaneh Janfo, Simona Marchesini di Alteritas e Alberta Dal Cortivo dal Museo Africano.

Nati dall’interesse di promuovere forme di convivenza e mutuo riconoscimento tra richiedenti asilo e comunità accoglienti, il progetto e la mostra muovono dalla necessità di restituire centralità e capacità narrativa ai vissuti individuali dei richiedenti asilo. Il progetto – ricorda Paini, coordinatrice del Joint Project – nasce da una proposta del 2018, a cui hanno aderito giovani richiedenti asilo, in particolare da Iraq, Togo, Gambia, Senegal, e un artista curdo. Il progetto è di taglio antropologico, attraversando però anche l’ambito sociale e artistico-culturale; fine ultimo era restituire capacità narrativa ai richiedenti asilo e unire il “sapere” con il “fare”: un riuscitissimo progetto di public engagement, o antropologia pubblica.

I cinque sarti protagonisti di RiCu ospiti all’edizione 2019 della manifestazione Verona Tessile. Nella foto manca il sesto protagonista, l’artista curdo. Credito foto VERONAOFF

Ben sette sono i partner che hanno collaborato per la realizzazione di questo progetto biennale e dell’esposizione al Museo Africano: Alteritas, Associazione Ad Maiora, Associazione fotografica Verona OFF, Fondazione Nigrizia Onlus con Museo africano, Cestim, Cooperativa Tinlè e Cospe Onlus.

I giovani sarti hanno realizzato, come punto d’arrivo di questo progetto, dei manufatti – coperte, esposte al Museo. Perché una mostra i cui oggetti e manufatti esposti abbiano al centro l’oggetto coperta? Si tratta di un oggetto denso, che rimanda al primo momento di accoglienza vissuto dai richiedenti asilo sulle coste italiane o a momenti del loro personale vissuto, come il ricordo di uno dei sarti che racconta come i nuovi nati, nel suo Paese d’origine, siano accolti con il dono di una piccola coperta. Questi manufatti sono in grado allora di restituire centralità alle storie degli artisti che le hanno realizzate, ricostruendo i frammenti del loro viaggio migratorio.

Il progetto universitario ha consentito grandi opportunità di collaborazione con il territorio e con le sue associazioni ma anche l’espressione di alcuni tra i valori fondanti dell’Ateneo veronese e alla base della mostra “Ricucire distanze e luoghi”. Tra questi, l’accoglienza e il fare cooperando, che hanno permesso uno scambio di saperi, generando bellezza e dignità, come ha ricordato Emanuela Gamberoni, referente del Rettore per la Cooperazione allo sviluppo internazionale, sociale e ambientale.

Al centro, dunque, la valorizzazione dei saperi dei richiedenti asilo e dell’expertise in ambito sartoriale e tessile, grazie alla preziosa collaborazione con Ad Maiora, una onlus nata con lo scopo di recuperare tutte quelle arti manuali un tempo privilegio esclusivo del mondo femminile. Le coperte esposte sono state realizzate proprio nella sede dell’associazione, che ha messo a disposizione spazi, materiali, competenze tecniche. I workshop, che si sono poi trasformati in lavori individuali a causa dell’emergenza Covid, erano concepiti e vissuti come momenti di aggregazione dei saperi e come momenti di condivisione.

Un artista curdo ha accompagnato i sarti nella realizzazione dei bozzetti e delle figure e ha inoltre realizzato una tela, dal titolo “Viaggio incompiuto”, che ha dato vita ad un’installazione anch’essa esposta alla mostra. Non si tratta quindi di una semplice esposizione, ma di un vero e proprio percorso di contaminazione tra diversi saperi e pratiche, comprendente anche un itinerario fotografico (realizzato grazie alla collaborazione con Verona Off) e un percorso etnografico. Un progetto, insomma, finalizzato al dialogo interculturale e che si spera faccia riflettere, come auspica uno dei giovani sarti, Masaneh Janfo, sul concetto e sulle pratiche di accoglienza.

La mostra sarà aperta dal 23 febbraio al 25 aprile (solo su prenotazione) ma non si esaurirà con l’esposizione al Museo Africano, anzi è destinata ad espandersi: dall’1 al 5 maggio sarà ospitata presso la Gran Guardia nell’ambito del festival Verona Tessile, per diventare mostra itinerante negli anni prossimi.

La mostra RICU mette al centro i manufatti con l’ambizione di restituire una lettura diversa per leggere i vissuti migratori e al contempo rendere conto delle diverse sensibilità e dei diversi punti di vista messi a confronto nel corso della realizzazione del progetto. Si voleva arrivare a una narrazione che sottraesse le storie dei richiedenti asilo da certi clichè, facendo da ostacolo ad un vero ed autentico ascolto delle loro storie. Da lodare, quindi, in primis il presupposto etico–politico alla base del progetto, ovvero che ogni storia di vita è unica e merita di essere raccontata.

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