Joe Biden, a sostegno della campagna elettorale dei Democratici, ha presentato un superpiano per l’energia pulita e il clima impegnandosi, qualora eletto, a rientrare nell’accordo di Parigi già nel primo giorno di presidenza, intorno a metà gennaio 2021.

Un piano molto particolareggiato e ampio, che  prevede investimenti per 2.000 miliardi di dollari in quattro anni per riuscire a decarbonizzare il sistema elettrico americano entro il 2035, dare un forte impulso alla mobilità elettrica e riqualificare energeticamente gli edifici.

Sarebbe un cambiamento a 180 gradi rispetto alla presidenza Trump negazionista.  

Ora che Biden ha vinto le elezioni americane, coloro che considerano necessari la transizione energetica e la realizzazione di un’economia sostenibile non possono abbandonarsi a facili entusiasmi perché gli aspetti critici non sono pochi e trascurabili. Solo nella implementazione delle proposte, e quindi nel confronto fra i diversi interessi in gioco, si verificheranno la determinazione della nuova presidenza e le sue reali possibilità di successo.  

Innanzitutto occorre ricordare che il Piano è stato stilato dalla Biden-Sanders Unity Task Force, il gruppo di esperti che ha negoziato un compromesso tra il Green New Deal proposto da Bernie Sanders e le idee più conservative e prudenti di Joe Biden: una linea comune per puntare alla vittoria su Trump.

Tra le tante misure annunciate, che ricordano quanto sta facendo l’Europa, appaiono rimarchevoli il programma per la riqualificazione energetica di 4 milioni di edifici (priorità a scuole, ospedali e immobili pubblici), l’installazione di almeno 500.000 punti di ricarica per veicoli elettrici, il potenziamento dei trasporti pubblici e delle ferrovie, la creazione di un milione di nuovi posti di lavoro nell’industria USA dell’auto, con particolare attenzione alla filiera dell’elettrico.

La consapevolezza  di doversi muovere su un confine molto esile, tra la volontà degli elettori della sinistra più “verde” e la necessità di mantenere la fiducia e l’attenzione degli elettori più tradizionali, ha consigliato prudenza nell’affrontare altri importanti argomenti.

Non si parla infatti di politiche di carbon pricing con cui tassare le emissioni di anidride carbonica, e manca un esplicito bando contro nuove attività di fracking, cioè l’estrazione di gas e petrolio dagli scisti con tecniche molto invasive e dannose per l’ambiente (la “spaccatura” delle rocce), che ha permesso agli USA di diventare forte esportatore di combustibili fossili.

Inoltre, per realizzare un mix elettrico a zero emissioni entro il 2035, si lascia campo aperto oltre alle rinnovabili non solo al nucleare ma anche ai combustibili fossili, se gli impianti saranno equipaggiati con sistemi per catturare le emissioni di CO2 (CCS: Carbon Capture and Storage).

Un piano solido ma con chiari e scuri che risalteranno nel confronto con la politica e con il Paese.

Biden, per parare le pressioni della parte più radicale del partito democratico, non potrà sottrarsi facilmente agli impegni presi. Nello stesso tempo deve fare i conti con un Senato dove i repubblicani, tradizionalmente finanziati generosamente dai petrolieri, detengono la maggioranza. C’è sicuramente da attendersi una battaglia sulle persone che verranno scelte per guidare le caselle chiave del governo, con l’angolo progressista del partito contrapposto alla parte più centrista.

Nel Paese in assoluto più energivoro al mondo non sarà facile parlare di transizione energetica poiché gli Stati Uniti sono di gran lunga il primo consumatore di petrolio al mondo e la benzina, esente da tasse, costa ancora 0,6 euro al litro, contro 1,3-1,4 euro dell’Europa. Il sistema elettrico dipende per un quarto dall’utilizzo del carbone, le emissioni di CO2 per abitante sono intorno a 17 tonnellate, contro le 7 dell’Europa e della Cina e le 2 dell’India e, infine, la produzione nucleare conta per il 20% della produzione elettrica americana con quasi 100 centrali nucleari, realizzate prima degli anni Ottanta.

La transizione energetica prospettata dal Piano Biden per l’ambiente, come del resto sta avvenendo in Europa, comporterà quindi una trasformazione radicale dell’intero sistema produttivo del Paese. I primi a esserne coinvolti saranno gli operai della cosiddetta Rust Belt , la zona Nord protagonista dello sviluppo industriale degli anni Cinquanta, ora in disarmo, ai quali la nuova amministrazione dovrà trovare un futuro nell’ economia green. La swing wave elettorale che per ora ha premiato Biden, se delusa, sarà pronta a ricredersi alla prossima occasione.

Sarà poi molto interessante vedere cosa faranno i petrolieri, i sopravvissuti delle Sette Sorelle dominatrici dei mercati energetici del Dopoguerra, combattuti fra la conservazione più duratura possibile degli attuali privilegi e la conquista di una posizione competitiva nel futuro.

C’è da sperare che Biden sia ben consapevole di questi aspetti e che con realismo sappia, come sta cercando di fare l’Europa, conciliare l’ottenimento degli obiettivi ambientali con la sostenibilità economica e sociale del suo Paese.  

La sfida è grande. Insieme America ed Europa hanno l’opportunità di diventare il motore della  transizione climatica globale offrendo leadership e un’ecodiplomazia che coinvolga l’intero pianeta.

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