In questi giorni tanto si è parlato molto del bambino di 11 che a Napoli si è lanciato da un balcone, perdendo la vita. . Una tragedia che ha colpito profondamente tutta la nostra comunità e che ci ha invitato a riflettere ancora una volta sul ruolo dei social e della solitudine dei nostri ragazzi.

Ma in che modo se ne è parlato? Su cosa più frequentemente si focalizza la nostra attenzione? E a scapito di cosa?

Quello che mi è apparso evidente è la continua ricerca di spiegazioni che siano fuori da noi, come per esempio il mondo della tecnologia, mettendo da parte ciò che è legato al mondo emotivo e alla sofferenza dei soggetti coinvolti. Proprio perché il dolore appare qualcosa di individuale e difficilmente verbalizzabile, perché probabilmente faticoso da raccontare o non facilmente condivisibile. Mi sembra come se oggi non ci sia più concesso il tempo della sofferenza e sempre più eccezionale accogliamo la possibilità di ascoltare e lasciare spazio alle difficoltà di un ragazzo così giovane.

Credo, però, che interrogarsi profondamente su cosa significhi perdere qualcuno o qualcosa sia necessario per ciascuno di noi, anche per porre uno sguardo sui presupposti che ci permettono di anticipare gli eventi. Perché anticipare una morte può essere in alcuni casi troppo minaccioso o in altri casi credo si possa scegliere soltanto che tipo di narrazione costruirci a posteriori, perché prima diventa quasi in-anticipabile.

E così, in questa società in cui l’interesse appare volto al prodotto artificiale, a ciò che non è vivo e al superamento di ogni limite, è poco lo spazio tollerato per contemplare la morte.

Parlare della morte, dal mio punto di vista, significa in qualche modo prendere consapevolezza dei movimenti in atto che ciascuno di noi agisce. È proprio questa consapevolezza che credo possa promuovere un cambiamento di prospettiva e possa rendere possibile distinguere tra ciò che è necessario e ciò che è meno fondamentale, per scegliere in quale direzione investire.

Parlare della morte credo ci dia coscienza dell’unicità di ogni individuo, della nostra finitezza e della breve durata della nostra vita. Se da un lato possiamo comprensibilmente temere tutto questo, dall’altro credo si possa farne occasione per esplorare cosa fare nel tempo a nostra disposizione.

Parlare della morte penso significhi essere pronti ad ascoltarsi e ascoltare profondamente quelle preoccupazioni che incontrano la morte di continuo nella pratica quotidiana. Perché nella morte regna la fine e spesso finiscono un lavoro, una relazione e altro.

Parlare della morte può significare stare in quel silenzio che va oltre le parole. Quel silenzio intriso di “vuoto”, dolore e speranza.