Cambiar tutto per non cambiare niente. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore del celebre romanzo “Il Gattopardo”, sarebbe probabilmente orgoglioso di Mattia Binotto, il Managing Director e Team Principal della Ferrari che nei giorni scorsi ha risposto alla grave crisi in cui da tempo versa il Cavallino Rampante con una rivoluzione interna della squadra che però, di fatto, rivoluzione vera non è. Binotto, infatti, non volendo dare vita all’ennesimo cambio radicale dell’organigramma – che avrebbe portato soltanto a perdere ulteriore tempo rispetto agli avversari costringendo la Ferrari a ripartire da zero in interi settori -, si è di fatto limitato a dare una nuova forma, più piramidale e meno orizzontale, all’organizzazione della Rossa, discostandosi così dall’idea imposta da Sergio Marchionne, che a suo tempo aveva fortemente voluto tutti i responsabili delle varie aree sullo stesso identico piano di responsabilità. Una scelta che però, nel tempo, non ha evidentemente portato ai frutti sperati, nonostante in scuderia siano arrivati due piloti talentuosissimi come il quattro volte campione del mondo Sebastian Vettel e l’astro nascente dell’automobilismo Charles Leclerc, a detta di tutti destinato ad un grande futuro. Lo stesso Binotto, quando sostituì all’inizio del 2019 Maurizio Arrivabene alla direzione sportiva della Ferrari, si era visto costretto in qualche modo ad accentrare su di sé quasi tutte le principali attività legate allo sviluppo e gestione dell’auto, alla direzione dell’area comunicazione, al rapporto con le risorse e i piloti e via dicendo. Un eccesso di competenze che, probabilmente, ha portato al disastro attuale, non essendo umanamente possibile – con oltretutto le enormi pressioni che la Ferrari inevitabilmente impone – riuscire a lavorare bene in questo contesto. Dall’altra parte, proprio a causa della consapevolezza di essere arrivati ormai a una sorta di “punto di non ritorno”, Binotto ha deciso di gestire d’ora in avanti in maniera diversa la scuderia, tornando a un modello organizzativo che in passato, all’epoca di Jean Todt e del “cannibale” Michael Schumacher, ha indubbiamente riscosso grande successo, con il tedesco in grado di vincere per cinque stagioni consecutive il titolo di campione del mondo. Quel record di vittorie (7 in totale, se si considerano anche i due campionati vinti quando era alla Benetton di Briatore) è ora nel mirino di Louis Hamilton, il pilota inglese che è arrivato a sole 5 vittorie in GP da quelle di Schumacher (86 contro 91) e a un solo Campionato del mondo Piloti (6 contro, appunto, 7) da Schumacher. La Ferrari probabilmente non riuscirà per questa stagione a contrastare neppure lontanamente lo strapotere Mercedes e del suo pilota di punta, ben coadiuvato peraltro dallo spumeggiante talento di Bottas, ma ha quantomeno il dovere di risalire la china e provare a mettere in discussione la vittoria in ciascun Gran Premio cercando di rimontare punti e posizioni in classifica, sia in questo tormentato 2020 sia in previsione della prossima stagione, quella del 2021 dove, si presume, i valori in campo saranno nuovamente quelli visti in questa stagione, ma potranno essere rivoluzionati l’anno successivo, nel 2022, quando le nuove regole potranno riportare a galla nuovi assetti e novità tutte da verificare.

Tornando alla Ferrari, dunque, la scelta fatta attualmente è “solo” quella di confermare tutti gli uomini che hanno gestito lo sviluppo e la crescita di motori e telaio negli ultimi anni, ma affidando a ciascuno di loro d’ora in poi maggiori responsabilità e deleghe di comando, cercando in questo modo di renderla più efficiente e orientata all’obiettivo finale. Fra le novità la creazione dell’area Performance Development, affidata a Enrico Cardile, con il compito di sviluppare le prestazioni delle monoposto, che risponderà direttamente a Binotto. Una scelta, quella di quest’ultimo, che risponde all’esigenza di non lasciare nulla d’intentato e di dare comunque fin da subito una sterzata alla tribolata stagione 2020 della casa automobilistica più famosa del mondo, che ormai da anni soffre lo strapotere tecnico non solo della Mercedes e della Red Bull, ma da quest’anno anche quello di McLaren e persino di Racing Point. Fatica la power unit e fatica l’aerodinamica e non basta certo l’inquietante spy story emersa in questi giorni, portata alla luce da Giorgio Terruzzi sul “Corriere”, per spiegare il disastro di questo inizio di stagione, solo in parte mitigato dal secondo posto che un ispirato Leclerc ha saputo conquistare al primo GP della stagione. Un podio che in parte ha nascosto le “magagne” di una scuderia che ha poi visto al secondo GP i suoi due piloti partire nelle retrovie e scontrarsi fra loro (e ritirarsi) nell’inevitabile bagarre alla partenza e subire addirittura l’onta del doppiaggio al terzo GP, quello andato in scena in Ungheria. Un affronto che la scuderia fondata da Enzo Ferrari non può più tollerare e che impone una presa di coscienza senza precedenti, tanto da ricorrere – come peraltro è stato fatto – subito ai ripari, ma con la dovuta pazienza, nonostante la delusione dei tifosi. Quella stessa pazienza che altrove è servita (come nel caso di Wolf in Mercedes) a creare un team vincente che a Maranello ebbero all’epoca di Montezemolo, Todt e Schumacher, impiegando ben sei anni prima di arrivare finalmente a vincere. Quando iniziarono, come tutti sanno, poi non si fermarono più. E il tempo, come si dice in questi casi, sa essere galantuomo.