PROLOGO

Nell’estate del 1995 in radio vanno forte i Take That con Back for Good e L’ombelico del mondo di Jovanotti. Io ho nove anni e sto leggendo l’ultimo numero di Forza Milan. In copertina, mister Capello si coccola i tre grandi acquisti per la nuova stagione: George Weah, Roberto Baggio e Paulo -ma voi lo ricordate- Futre.

Nel luglio del ’95, a Zagabria, si studia come non far passare un’altra estate senza turisti stranieri sulle spiagge della Dalmazia. In quegli stessi giorni, a poco meno di 400km di distanza dalla costa, c’è un luogo in cui l’orologio del tempo dell’Europa sta tornando indietro di cinquant’anni, o forse più.

Tra le montagne della Bosnia, dove ci si andava a rilassare in un centro termale, ora l’aria puzza di morte. Welcome to Srebrenica.

Il Memoriale di Potočari (credit: islamcity.org)

OGGI

A Potočari l’erba è verde, e i riflessi dell’ultima brina fanno scintillare sotto il sole migliaia di lapidi bianchissime. Siamo pochi km a nord di Srebrenica, l’aria è quella frizzante delle vallate di montagna. File che sembrano interminabili di cippi verticali puntano verso il cielo, come da tradizione musulmana. All’ingresso del Memoriale c’è un numero che chiarisce subito le dimensioni dell’orrore: 8.372. In stragrande maggioranza uomini, bosniaci, musulmani tra i 12 e i 77 anni. Le vittime “ufficiali” dell’ultimo genocidio perpetrato in Europa. Alle soglie del 2000, venticinque anni fa.

Proseguendo lungo la R453, prima dell’ingresso in città, c’è un campo da calcio. La casa dell’FK Guber Srebrenica. Il Guber, come lo chiamano tutti, ha quasi cento anni di storia, è stato fondato nel 1924 e fin dall’origine la sua maglia biancazzura è stata indossata da giocatori di tutte le etnie. Chiariamo subito, il grande calcio transita altrove. Qui parliamo di tribune in erba, panchine con tetti in lamiera arrugginita e macchine parcheggiate dietro le porte.

L’ingresso al campo dell’FK Guber Srebrenica

Il punto più alto della sua storia il Guber l’ha raggiunto nel 1989, quando si è preso il lusso di eliminare nei sedicesimi di finale della coppa nazionale jugoslava una squadra di prima divisione, il Buducnost Titograd. L’eroe è Jusuf Malagic, che para il rigore decisivo ad un giovane Predrag Mijatović.

Srebrenica e la sua squadra, composta da serbi e bosniaci, musulmani e cristiano-ortodossi, non sono un’utopia. Al contrario, sono la dimostrazione che la convivenza non solo è possibile, ma è già parte della realtà balcanica. Rafforzano le parole di Paolo Rumiz che, in Maschere per un massacro, ha le idee chiare: «spiegare una guerra con l’odio tribale è come spiegare un incendio doloso col grado di infiammabilità del legno da costruzione, e non col fiammifero gettato da qualcuno».

Le motivazioni etniche, quando si parla di Balcani, sono un vestito buono per tutte le occasioni. D’altronde la conosciamo tutti la filastrocca dei “sei stati, cinque nazioni…” e giù, fino ad “un solo Tito”. Vuoi mai che non accada qualcosa di brutto in quella polveriera?

Un’esultanza del Guber

Partite e allenamenti per il Guber sono proseguiti anche durante la prima fase della guerra, poi sono arrivati i cannoni, gli autobus, i colpi di mortaio e la safed area che doveva mettere tutti al sicuro. Il 6 luglio 1995 il corpo d’armata “Drina” dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina attacca l’area protetta di Srebrenica. La città cade cinque giorni dopo, l’11 luglio. Quello che accade nelle due settimane successive, sotto la guida del generale Ratko Mladić, i report ufficiali lo definiscono come “pulizia etnica”. Ma come fai a racchiudere in due parole certe immagini?

Più di 70 fosse comuni, caschi blu che restano fondamentalmente inermi, gruppi di 200/300 uomini messi in fila e fucilati. «Uomini sgozzati nei campi di grano, teste mozzate, ragazze violentate da decine di soldati», questo il racconto di Abid Efendic davanti al tribunale Penale Internazionale. Scheletri che ancora oggi, a distanza di 25 anni, vengono rinvenuti nei boschi attorno alla città.

Ratko Mladić (a sinistra) brinda con il colonnello olandese Ton Karremans – foto: LaPresse

L’orrore di Srebrenica è una ferita nel cuore del continente europeo che fatica a rimarginarsi. Troppo dolore, troppi silenzi e troppa retorica spalmata a mo’ di melassa sopra ad un conflitto la cui narrazione spesso diverge profondamente da ciò che è realmente accaduto tra città, vallate, villaggi e stanze del potere.

La dissoluzione dell’ex Jugoslavia e la guerra hanno lasciato un’eredità fatta di cicatrici e questioni sociali irrisolte, che oggi si riversa anche negli stadi. Così abbiamo l’FK Sarajevo che da qualche anno a questa parte si piglia le sue belle multe dall’Uefa per esporre striscioni che recitano “Non dimentichiamo il genocidio di Srebrenica. Non perdoniamo”. Sugli spalti serbi i messaggi sono di segno opposto. Nel 2017, i tifosi della Stella Rossa hanno celebrato Ratko Mladić: “La tua onorevole battaglia, la nostra eterna libertà: siamo con te, generale!”. Gli ultrà del Partizan Belgrado, invece, intonano spesso il coro in voga tra le formazioni serbe più nazionaliste: “Coltello, filo spinato, Srebrenica”.

La realtà è che in guerra, qualsiasi essa sia, pensare di poter separare in maniera netta buoni e cattivi, colpevoli e innocenti, eroi e assassini, è un esercizio di semplificazione astratto e fondamentalmente errato. Srebrenica e i Balcani non fanno eccezione. Una lezione che ho imparato a mie spese, una decina di anni fa, in Kosovo, davanti ad un altro Memoriale. Ma quelli erano altri volti, altre storie.

Un recente allenamento del Guber

Come si esce allora dal turbine delle rivendicazioni e del rancore? Una risposta la si può trovare su quel campo da calcio con le tribune scalcinate. Dove l’FK Guber Srebrenica è tornato a giocare nel 2004.

L’ex calciatore professionista Nermin Pašalić, bosniaco, e il suo amico d’infanzia Drago Radovic, serbo, hanno ripreso in mano le redini della squadra ed hanno anche aperto una Scuola Calcio per giovani calciatori provenienti da tutti i gruppi etnici del Paese. Il padre di Pašalić è una delle vittime del genocidio del 1995. Nermin è riuscito a identificarne i resti solo nel 2006. «Il dolore è sempre con me – ha raccontato in un documentario – ogni bambino è in lutto per i suoi genitori, ma la vita deve andare avanti».

La Scuola Calcio del Guber

Srebrenica è un buco nero dove nessuna mano può dirsi immacolata e nel quale tutti, in qualche maniera, abbiamo perso qualcosa. Bosniaci, serbi, musulmani, croati, Europa, ONU e Stati Uniti. Pure noi italiani, che nell’estate del’95 ballavamo in spiaggia a Milano Marittima, senza osare guardare cosa stesse accadendo dall’altra parte dell’Adriatico. A due passi da noi.

Un quarto di secolo fa. Che detto così può sembrare un sacco di tempo, ma non lo è. Affatto. Srebrenica è anche uno specchio, nel cui riflesso ognuno può ritrovare qualcosa di sé.

C’è chi ha scelto di guardarlo dritto negli occhi, quel riflesso. In questi giorni di luglio 2020 il Guber si sta allenando. E pazienza se le strutture non sono il massimo e se i palloni sono quelli usati dell’anno scorso. Si gioca lo stesso. L’erba è sempre verde, lì, sulla strada per Srebrenica.

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Immagine di copertina: Mike Norton

Le immagini dell’FK Guber Srebrenica sono ricavate dalla loro pagina Facebook