Nati nel 2006 a Verona, i Thing Mote arrivano, 14 anni dopo, al loro disco d’esordio, a seguito di un paio di ep. Intitolato “Robokiller”, il lavoro è in uscita il 5 giugno per Cabezon Italy, l’etichetta del cantautore veronese Mario Vallenari. La riflessione sulla progressiva perdita di umanità e del rapporto che lega l’uomo alla tecnologia è il leitmotiv di questo disco. Che musicalmente si inserisce nella grande corrente del rock, qui contaminato spesso con sentori grunge e post-qualcosa. Li ricordo bene i Thing Mote, avendoli visti visti all’inizio della loro avventura al Tiro contest (organizzato da chi scrive insieme a Guglielmo Arrigoni e Mattia Brunelli). Avevano un seguito molto partecipe. Ma passiamo al disco.

S’inizia con il riff sghembo della title-track, che nel ritornello esplode con distorsioni continue, debitrici per l’appunto a certo grunge, ma con un sound stoner oriented. Il bridge getta il brano nell’oscurità, con una vocalità lamentosa (le voci di Giuliano Fasoli e Tommaso Zanardi) che anticipano una ripresa atmosferica. Il risultato è discreto, e forse in questo Jacopo Gobber – che ha lavorato al disco nel suo Flaming Studio – ha un ruolo. La vocalità di Fasoli e Zanardi, va detto, non è quella tipica dell’interprete perfetto, bensì dell’autore, che presta anche voce alle proprie creazioni. Più ispirata e vagamente lisergica “Stillness”, mentre “Redroom” si snoda in punta di piedi, trainata dal basso di Pietro Donnarumma. 

Se l’intro di “Memories” ricorda il sound di alcuni pezzi clean dei Metallica (qualcuno ha detto “The Thing that should not Be”?), l’andazzo successivo è abbastanza sornione da ricordare il brano precedente, almeno finché non vengono accese le distorsioni, che nei Thing Mote non sono mai particolarmente gentili. Il pezzo finisce in modo inaspettato, in meno di tre minuti. A riequilibrare la durata c’è la successiva “Awake”, con un gradevole controtempo del batterista Fabio Dai Prè. Straniante però l’improvviso cambio dettato dal suo charleston, seguito da un riffing molto sporco. E, va detto, la pulizia non è certo l’ispirazione del lavoro, che in questo è effettivamente “noise”. 

Evitabile “Auckland and You”, con una parte pulita soporifera. Molto meglio “Her”, presa di peso da quanto insegnato dai Nirvana. Niente di più niente di meno, ma con un piglio convincente. Senza voler puntare a sottolineare i plagi, non possono non notare che “Hoax” ha una vicinanza forte con le atmosfere di un brano dei Blink 182. Peccato solo che i piatti suonino molto peggio, risultando fastidiosi. La registrazione della batteria è il punto critico un po’ di tutto il lavoro. Gli ultimi brani non si fanno ricordare particolarmente.

Tirando le somme si può dire che “Robokiller” sia il risultato di 14 anni di musica tra amici, di un percorso che non porta con sé particolari sorprese ma si pone con onestà nel solco del grunge e di certo rock che bada molto alla sostanza e poco agli orpelli.