Ha compiuto ieri 75 anni uno dei più grandi pianisti della storia. Quel Keith Jarrett da leggenda, che molti conoscono per il “Koln Concert” ma che ha saputo, nella sua lunga carriera, creare sonorità jazz di grande impazzo. Lo ricordiamo anche nella nostra città, in Standard Trio con Gary Peacock e Jack De Johnette in occasione di un paio di Veronajazz, (nel 1999 e pochi anni dopo, nel 2004) in un’Arena in entrambe le occasioni purtroppo non strapiena in ogni ordine di posto, ma di sicuro estasiata da quell’amalgama jazz che i tre riuscivano a produrre e soprattutto dalle sonorità che solo lui riusciva e riesce a ricavare dal suo piano. In quell’occasione, durante un’improvvisazione, Jarrett si fermò: guardò la platea dove uno sventurato aveva osato scattare una foto con il flash interrompendo il flusso musicale che dalla sua mente e dalla sua anima scorreva attraverso le braccia e le mani sul pianoforte nero messogli a disposizione dall’organizzatore veronese. “No flash! No flash!” ripetette con decisione e scrutando per alcuni interminabili secondi con il sopracciglio inarcato il fan, che – presumiamo – in quel momento avrebbe voluto scomparire. Poi Jarrett riprese a battere con le dita sui tasti del piano e tutto passò. Ecco, il piano… uno strumento con cui mettersi a nudo, completamente, e svelare semplicemente (si fa per dire) la propria anima, un modo certo non convenzionale con cui Jarrett ha saputo stupire il mondo e coinvolgere generazioni diverse di appassionati.

Lo Standard Trio all’Arena di Verona

In un momento storico particolarmente complesso per l’arte in generale e per la musica in particolare, vista la difficoltà di poter organizzare concerti live a causa del Coronavirus che ha colpito buona parte del globo, vogliamo però ricordare quel concerto di Colonia, datato 24 gennaio 1975. All’epoca Jarrett, nato ad Allentown in Pennsylvania negli Stati Uniti, aveva 29 anni e la sua carriera era in massima ascesa. Ma quel concerto rischiò seriamente di non essere suonato. E la storia, probabilmente, sarebbe poi stata completamente diversa. Jarrett arrivava a quel concerto direttamente da Losanna dove la sera prima aveva tenuto alla Grande Salle d’Epalinges una delle tante esibizioni di quel lungo e faticoso tour europeo che non ammetteva pause. O meglio, in realtà Keith pretendeva almeno una notte di “libertà” fra una esibizione e l’altra per poter ricaricare le energie, visto che ogni concerto era un’opera unica e inimitabile, fatta di improvvisazioni e canovacci su cui intesseva trame sempre nuove, ma proprio per questo totalmente “assorbenti” di energie e personalità. E chissà perché Jarrett quella notte successiva al concerto di Losanna non aveva dormito. Niente, occhi spalancati, le energie lo avevano abbandonato completamente ma lui non era comunque riuscito a chiudere occhio. Il sonno come dimensione, un tempo a cui si accede senza sapere bene il perché, né quando. C’è solo l’attesa e la pazienza a farci compagnia, negli istanti che lo precedono, ma quella notte, per Jarrett, il sonno non arrivò. Il palpito del suo cuore, il flusso del sangue, il perdersi nei meandri delle lenzuola della camera d’albergo, la moglie sprofondata nell’oblio al suo fianco, e poi quelle sensazioni ancora sulla pelle che il pubblico svizzero gli aveva restituito con quegli applausi, scroscianti, senza fine. Una notte che avrebbe segnato il suo percorso artistico, per sempre. Si perché poi c’era stato il viaggio, lo spostamento, che come spesso avveniva era stato anche in quell’occasione in macchina, su una vecchia Renault 4 insieme alla moglie Margot e al figlio Gabriel e, ovviamente, all’inseparabile manager Manfred Eicher.

Un viaggio che era stato lungo oltre 400 km che permise allo sfinito Keith di arrivare nella città tedesca solo alcune ore prima del concerto. E già questa era un’anomalia permessa dall’artista come eccezione a causa dell’intasarsi del calendario del tour, che otteneva col passare del tempo sempre maggior successo. Però c’era un però… il pianoforte che trovò nella sala da concerti dell’Opera non era esattamente quello concordato. Era un piccolo Bosendorfer e non il Bosendorfer 290 Imperial che aveva espressamente richiesto nel suo contratto. Jarrett accettò comunque di provare a suonarlo, ma non c’era la “risposta” che pretendeva. Se ne andò a mangiare qualcosa con il manager minacciando di non esibirsi se non avesse trovato, al suo ritorno, il pianoforte richiesto. Senza se e senza ma. La manager locale, Vera Brandes, però, non riuscì a sostituire lo strumento, ma almeno riuscì a trovare un accordatore che lavorò alacremente sul piano per cercare di migliorarne le sonorità. Niente da fare, al suo ritorno Jarrett non trovò comunque le “condizioni” accettabili e fu lì lì per far saltare tutto, ma alla fine le lacrime della manager locale e forse l’intercessione del fido Manfred o della moglie lo convinsero ad esibirsi ugualmente. E fu la sua fortuna. La stanchezza, l’atmosfera di Colonia, dove erano accorsi in maniera sorprendente centinaia di giovani in jeans e maglietta, la notte insonne del giorno prima, le sensazioni accumulate durante il viaggio e quella bolla mentale in cui era in qualche modo caduto crearono il miracolo. Trovando ispirazione da chissà cosa Jarrett si mise al piano e partì con un’improvvisazione argentina, ammutolente, capace di descrivere mondi infiniti e morbidi, un flusso senza fine, inconsapevole, una somma di note cercate a lungo, delle frasi musicali, delle percussioni ritmiche, delle soluzioni armoniche che probabilmente il pianista aveva cercato a lungo tra i tasti bianchi e neri del suo piano e che sorprendentemente – forse anche per lui – trovò quella sera e, forse, solo quella sera. A contribuire a quelle sonorità anche quell’incolpevole piano, stranamente accordato, che restituitì a Jarrett la fiducia che, chissà perché, gli era stata concessa e che in qualche modo fu all’origine di un disco che – a riascoltarlo oggi a distanza di 45 anni – appare quanto mai originale, fresco, imperdibile per qualsiasi amante di quel genere musicale a cavallo fra il jazz e il romanticismo sonoro tipico di una certa scuola pianistica mondiale.

Quella sera, insomma, Keith Jarrett fece a suo modo la storia della musica. E cambiò per sempre la sua storia personale. Grazie all’ispirazione di una notte insonne e un viaggio “molleggiato” su una R4 d’antan.