È il tempismo che conta. Nella vita, nello sport, nella musica, in politica. Pensate a un difensore che prova ad anticipare l’avversario e cicca clamorosamente il tempo dell’intervento. O a un tennista che per accelerare il colpo e quindi velocizzare l’impatto della racchetta sulla pallina sbaglia il timing e “stecca”. Tralasciando il “troppo presto” o “troppo tardi” di un amore – lancette che possono cambiare il corso di un incontro o un’esistenza – o la distrazione, a quel punto esiziale, di un orchestrale.

Il tempo conta e anche Conte lo ha capito fuori tempo. Il gioco di parole spiega lo psicodramma andato in onda a reti unificate domenica sera: quelle dirette nazionali che fino a una settimana prima avevano accresciuto la popolarità del premier ai livelli di un Diego Armando a Napoli, domenica (in parte) gli si sono riversate improvvisamente contro come mai prima. Il fuoco delle critiche è arrivato, potente, a insinuarsi e a instillare i primi dubbi nell’opinione pubblica. Non è importante se domenica Conte abbia fatto o detto bene o male, è determinante che l’abbia detto o fatto “fuori tempo”.

Nemesi compiuta, consumata. Sia chiaro, Conte rimane alto nei sondaggi, ma è ufficialmente uscito dall’incantesimo di novello Re Mida. Il fatto è che la paura – il sentimento che ha unito gli italiani al premier, ora (avverbio di tempo non casuale) – è stata soppiantata dall’esasperazione, cioè da un misto di esaurimento e impazienza di un popolo che dopo due mesi agli “arresti domiciliari” non ne può più di stare in casa.

La gente si è rotta le balle, questa è la verità: la voglia di libertà prevale su ogni altra cosa, virus compreso. Così la narrazione castigata, prudente, paternalistica di Conte, che fa ricadere sui cittadini la responsabilità della guerra al virus (“Lo scaricabarile perfetto” di cui scrivevo qui nelle scorse settimane) prima vincente, adesso è scaduta. Questione di timing, appunto.

Conte non se lo aspettava, era convinto ancora una volta di “indorare” la pillola. Pensava ci fosse ancora tempo, che invece si è consumato più in fretta del previsto. Ma se la clessidra ha velocizzato il suo incedere, la colpa (involontaria) è proprio di Conte. La gente è stata illusa, accarezzata, blandita per giorni, settimane: “Il 4 maggio si torna a uscire” erano i messaggi non ufficiali che Palazzo Chigi e il governo lanciavano attraverso frasi off records e retroscena giornalistici ai mass media e quindi all’opinione pubblica. Era un metodo studiato questo: si credeva che dando speranza (la famosa luce in fondo al tunnel) intanto si tenessero buoni i cittadini. Tattica con il fiato corto, perché se tu illudi e poi non mantieni, l’esasperazione montante esplode. Elementare Watson.

E così Conte è tornato a essere divisivo e la battaglia politica (acquietata nella prima fase dell’emergenza) si è ripresa la scena. Fino a poche settimane fa criticare Conte sembrava lesa maestà, oggi rientra nei canoni della normalità. E non mi riferisco solo degli strilli scontati di Salvini, ma anche alle insofferenze dentro lo stesso governo (i ministri Gualteri e Patuanelli che volevano riaprire) e nella stessa maggioranza (le critiche apertis verbis di Renzi).

Conte ha sbagliato… a contare i secondi di queste settimane recluse, ha valutato erroneamente l’involuzione psichica della gente. E, forse, è stato tradito e ingannato dal bagno di folla dei sondaggi. Come Renzi e Salvini a loro tempo. Peccati di vanità che si ripetono nella politica italiana.