Se non avevate mai sentito parlare di Taika Waititi, d’ora in poi vi sarà impossibile dimenticarlo.

Comico, attore regista e sceneggiatore neozelandese di 44 anni, prima che dirigesse una delle pellicole più assurde dell’Universo Marvel (quel Thor: Ragnarok del 2017 che personalmente mi divertì parecchio, ma che era anche completamente fuori di testa e per nulla in linea con il personaggio fino a quel momento raccontato nei precedenti episodi), Waititi lo conoscevano solo gli appassionati di film horror-comici, che sono decisamente meno degli appassionati di film horror e ancora meno degli appassionati di film comici; infatti il suo Vita da vampiro – What we do in the shadows (2014), che ora è anche una serie televisiva, gli permise di farsi notare in vari festival grazie a un originale approccio al genere vampiresco. Dopo due anni passò alla commedia Selvaggi in fuga, ma a quel punto dalle parti di Hollywood lo avevano già adocchiato e da lì a fare il grande salto il passo fu breve. E il salto gli riuscì alla grande: la pellicola sulle folli avventure del figlio di Odino incassò una cifra intorno agli 854 milioni di dollari, a fronte di un costo di 180, perciò tutto il romanticismo e la simpatia dell’industria cinematografica americana erano ora ai suoi piedi.

Adesso mancava solo una nuova, grande idea per realizzare quello che diventerà il suo progetto più personale e riuscito, almeno fino a questo momento; ci vuole poco, perché la scintilla gliela dà la scrittrice Christine Leunens con il suo drammatico romanzo Il cielo in gabbia, che naturalmente il pazzo Waititi stravolgerà trasformandolo in una sceneggiatura grottesca e divertentissima, ma al tempo stesso drammatica e con un messaggio di tolleranza quanto mai indispensabile di questi tempi.

Senza scomodare Chaplin (Il Grande dittatore, 1940), Lubitsch (Vogliamo vivere!, 1942) o Brooks (Per favore, non toccate le vecchiette, 1967), il riferimento immediato va a Benigni con il suo acclamato La vita è bella (1997), vuoi per la presenza fondamentale del bambino, vuoi per un approccio favolistico al male assoluto. Waititi, però, almeno stilisticamente sembrerebbe volersi ispirare più ai mondi bizzarri di Wes Anderson, dei Coen e persino di Jeunet, ma a noi spettatori di tutto ciò importa ben poco, perché quello che conta è il risultato finale, che si dimostra sincero, emozionante, commovente e spesso estremamente esilarante.

Il cast di Jojo Rabbit è da standing ovation, a partire dal piccolo Roman Griffin Davis sulle cui spalle poggia l’intero film, per passare a un’incredibile Thomasin McKenzie nei panni della giovane Elsa, fino ad arrivare ai veterani Scarlett Johansson e Sam Rockwell, la prima solare e in parte come sempre e il secondo mai così adorabile nel ruolo di un nazidrugo. E come dimenticare lo stesso regista e sceneggiatore nel ruolo di un immaginario Hitler?

Alla prima apparizione di Taika Waititi nei panni di Adolf Hitler non si sa cosa pensare, perché subito si teme che possa essere “troppo”, ma è una sensazione che accompagna quasi tutta la visione di Jojo Rabbit per la scelta stilistica fatta dall’autore; per tutti i 108 minuti di proiezione si trattiene il fiato in attesa che possa arrivare qualche sciocchezza a rovinare la magia, ma per nostra fortuna questo non accade mai e ci si alza dalle poltrone del cinema con gli occhi lucidi dalla felicità e dalla commozione (uno dei 6 Oscar ai quali il film è candidato è quello, giustamente, per la miglior sceneggiatura).

In un mondo condannato dalla ciclica stupidità umana e dalla consapevole negazione della memoria, film come Jojo Rabbit sono fondamentali per ricordare che solo la conoscenza del nostro passato potrà salvare il nostro futuro. Anche con l’aiuto di una risata.

Voto: 4/5

Jojo Rabbit
Regia di Taika Waititi
Con Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie, Scarlett Johansson, Taika Waititi, Sam Rockwell, Rebel Wilson, Alfie Allen e Stephen Merchant