Come largamente previsto, l’improbabile leader conservatore Boris Johnson, vincendo a mani basse le elezioni in UK, ha chiuso il cerchio di una vicenda che era iniziata come una faida di potere interna al partito conservatore ed è terminata come un suo personale trionfo.

Il 31 gennaio 2020 il Regno Unito non farà più parte della UE, ma la Brexit è lontana dalla sua conclusione. Facciamone il punto:

  1. Johnson ha vinto e Corbyn ha straperso. L’ancor più improbabile leader marxista e antisemita dei Labour ha subito una batosta storica. Ha pagato pegno per la sua piattaforma ideologica imbarazzante e per la sua sostanziale indifferenza riguardo la Brexit. Ricordiamo la sua avversione per i burocrati di Bruxelles che ha sempre considerato agenti del neoliberismo. Passerà alla storia tra le cantonate mondiali la recente copertina entusiastica de “L’internazionale” che lo incensava come alfiere “lefty” della riscossa antiliberista marxista;
  2. la Brexit non è affatto conclusa, anzi ora viene il bello. BoJo dovrà negoziare tutti i trattati commerciali che regoleranno i futuri rapporti tra UE e UK. La data fissata per la chiusura del negoziato è la fine del 2020. Ma visto e considerato che le trattative per l’accordo commerciale tra UE e Canada siano durate dal 2009 al 2014, e che il successivo trattato è stato ratificato dalla UE nel 2017, è ovvio che siamo nel campo delle illusioni (o narrazioni). E finché non saranno perfezionati i trattati, tutto resterà com’è ora;
  3. ora BoJo, e soprattutto il partito conservatore, non hanno più attenuanti. Il risentimento che ha portato l’ex working class a schierarsi quasi a falange compatta per la Brexit è frutto delle politiche liberiste della Thatcher. Interi settori produttivi sono stati distrutti e lo stato sociale ha subito una drastica contrazione per le politiche di rigore che sono state il cavallo di battaglia dei conservatori. Finché la UK stava nella UE, i demagoghi alla Farage o Johnson avevano buon gioco nell’additare l’ultima come la responsabile delle ricadute sociali delle loro stesse politiche. Dal 31 gennaio prossimo il giochetto non funzionerà più. Si era promesso il Paradiso e il Paradiso deve arrivare;
  4. la Scozia ha dato un chiaro segnale. Vuole la “Scotxit”. Se il referendum per l’indipendenza del 2014 fu osteggiato dalla UE, c’è da chiedersi che atteggiamento questa assumerebbe ora. Anche e soprattutto in un’ottica punitiva nei confronti della UK. Vero è che esistono molti ostacoli sulla strada dell’indipendenza scozzese. Per esempio gli unici porti che possono servire i sottomarini nucleari inglesi si trovano in Scozia, ed è difficile pensare che gli inglesi li cedano a cuor leggero. Ma il segnale è forte e chiaro: «We want to leave UK»;
  5. la mappa del voto dice chiaramente che la Brexit è stata un affare del nazionalismo inglese, non britannico. Dopo il crollo del Grande Impero a titillare le nostalgie imperiali inglesi è rimasto solo il Piccolo Impero confinato nell’arcipelago britannico e composto da Inghilterra, Scozia, Galles e Ulster. Che, paradossalmente, rischia di disgregarsi proprio a causa del nazionalismo britannico. Occhio al Galles, il quale potrebbe diventare il nuovo fronte dei separatismi britannici. I conservatori hanno promesso che sostituiranno con nuove forme di sovvenzioni quelle UE che consentono la sopravvivenza dei farmer gallesi (e di tutta l’agricoltura UE). I tagli di bilancio che negli anni scorsi hanno caratterizzato le politiche conservatrici danno la misura della credibilità di una simile promessa;
  6. situazione congelata in Ulster. Il Sinn Fien si conferma primo partito relativo, ma la sua affermazione è inferiore alle attese. L’Ulster è spezzato in due, BoJo par salvare la Brexit ha accettato che il confine economico tra UE-UK sia il mare d’Irlanda, inoltre la demografia sta pendendo dalla parte cattolica. Un futuro referendum per l’unione con l’Eire, possibilità prevista esplicitamente dal “Good Friday agreement” molto probabilmente porrà fine al dominio secolare inglese nelle contee del Nord. Sullo sfondo, gli irriducibili della Real IRA, un numero di guerriglieri compreso tra i 200 e i 500 pronti a riprendere le armi su vasta scala qualora la Brexit facesse riapparire un “hard border” tra Ulster e Eire;
  7. l’uscita dalla UE proietta l’UK verso il luminoso futuro dell’anglosfera, ovvero l’insieme delle relazioni privilegiate tra i paesi anglofoni (USA, UK, Canada, Australia e Nuova Zelanda). Una narrazione che piace tanto pure agli anglofili locali. Ma che ha la stessa concretezza dell’esistenza del mostro di Loch Ness. Obiettivo geopolitico secolare dell’Inghilterra, almeno dalla guerra dei Cent’anni in avanti, è stato quello di impedire che sul continente europeo si formasse una potenza egemone che potesse minacciare a rischio la sua talassocrazia. Nella narrazione l’anglosfera, brand di nicchia per i nostalgici dell’occidentalismo, rafforzerebbe la partnership tra le due potenze anglofone ai due lati dell’oceano atlantico e quindi il dominio marittimo anglofono. Narrazione a cui si crede di più al di fuori dell’arcipelago britannico. Il 50% del commercio estero del UK è con la UE. E non si capisce come il trumpiano “America First” basato sulla predominanza degli interessi USA si coniughi con qualsiasi forma di partnership con altri paesi, per giunta minacciati di dissoluzione come la UK post Brexit. Poi potremmo dire che ci sono paesi nell’anglosfera che di fatto sono colonie economiche USA, come il Canada, o altri, come l’Australia e la Nuova Zelanda, che guardano di più verso la Cina e le economie del bacino Pacifico che non verso la UK, ma non esauriremmo di sicuro la questione.

Parafrasando un motto che potrebbe benissimo essere di BoJo, Brexit is (not) Done.