Ho sempre rispettato Stallone, perché era giusto farlo: pur con tutti i suoi limiti è riuscito tenacemente a imporsi nel mondo del Cinema, sia come attore che come sceneggiatore e regista, addirittura creando due personaggi iconici come Rocky e Rambo (anche se quest’ultimo nasce da un libro di David Morrell del 1972) che sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo.
Poi ha fatto Rambo: Last Blood e il rispetto ha vacillato non poco.

La sceneggiatura sembra scritta con la mano destra e se pensate che questo sia un complimento è solo perché, probabilmente, non sapete che Stallone è mancino. I dialoghi sono così brutti, banali, retorici e vecchi che al confronto agli autori di Alex l’ariete avrebbero dovuto dare l’Oscar, ma nel caso non ve ne foste accorti al primo ascolto, ci pensa Sly a farli riecheggiare nella sua testa più volte durante il film togliendovi ogni dubbio.

Però fin qui ne ero cosciente, nel senso che avevo letto le stroncature, ma confidavo nell’unica recensione positiva che elogiava la bassa macelleria finale e sì, lo ammetto, le speranze che gli ultimi venti minuti potessero risollevare i precedenti ottanta (nei quali praticamente non accade nulla, se non seguire le fissazioni di un signore anziano che si costruisce delle gallerie sotto alla sua fattoria nella pericolosissssima Arizona arredandole con un variegato arsenale) erano tante. Invece i minuti di splatterosa (ma neanche troppo) violenza saranno in tutto una decina. Pochi, anche se ti chiami Rambo e fai il grugno dopo aver buttato le pastiglie per il colesterolo ed esserti scordato l’appuntamento col parrucchiere per ripassare la tinta dei capelli.

Vi assicuro che sono entrato in sala senza nessuna pretesa se non quella di rivedere un vecchio amico frigoriferiforme che mi avrebbe fatto divertire per un’oretta e mezza o poco più, pronto a scollegare i due neuroni rimastimi e assecondare i bassi istinti sprofondando in una storia di vendetta e violenza, cosa fattibile (per fortuna) solo al cinema o davanti a un videogioco di quelli cattivi. Invece la noia ha prevalso. Alla fine del primo tempo guardo i miei amici, ancora più perplessi di me, e cerco di caricarli per il gran finale catartico e liberatorio che, però, arriva con dei buchi di sceneggiatura più grandi di quelli che fa Rambo nei corpi lacerati dei cattivi del Cartello messicano.

Settantatre anni non sono pochi, ma se ti chiami Sylvester Stallone sono un mero dettaglio anagrafico e ti puoi permettere di sconfiggere da solo i perfidi messicani per poi terminare nel tempo libero il “muro di Trump” con le tue stesse mani. Insomma, una forza della natura che non conosce ostacoli, perché a questi ostacoli ci passa attraverso senza troppi complimenti e tanti discorsi. Però non è che per un logorroico Rocky e per i suoi spin-off Creed si debba pensare a scrivere una sceneggiatura decente e per un taciturno Rambo solamente mettere insieme delle frasi sconnesse e stupide, non è così che funziona neanche appellandosi ai traumi vietnamiti e dispiace che Stallone e il cosceneggiatore Matthew Cirulnick abbiano mancato di rispetto nei confronti di un personaggio tanto amato e, soprattutto, nel pubblico in attesa da anni di una sua nuova avventura.

Giusto per far capire che non sono certo quello che snobba film di questo tipo (togliamo ogni dubbio che non si sa mai), alla domanda “Ma era meglio il quarto?” posso solo rispondere che, al confronto di quest’ultimo capitolo, quello era Quarto potere.

Peccato, ma da salvare c’è veramente pochissimo (di certo non la regia anonima di Adrian Grunberg e l’incolore partecipazione di Paz Vega) e non bastano le scene sui titoli di coda delle precedenti quattro pellicole per compensare la pochezza del tutto.

Voto: 1,5/5

Rambo: Last Blood
Regia di Adrian Grunberg
con Sylvester Stallone, Paz Vega, Sheila Shah, Yvette Monreal, Louis Mandylor, Óscar Jaenada, Díana Bermudez, Joaquín Cosio e Adriana Barraza