La vera cifra artistica di Ben Harper, aldilà delle sue abilità canore, chitarristiche e compositive, come ben sanno i suoi fan più attenti, è la straordinaria capacità di scrivere e suonare musica estremamente incisiva ed emozionante nonostante non sfrutti i vantaggi, che chiamerei classificatori, che derivano dall’appartenenza a un chiaro genere musicale. Questo mi è risultato ancora più chiaro in un bar di Piazza Sordello, Mantova, qualche ora prima del concerto dello scorso martedì 16 luglio, dove ho intrapreso una breve conversazione con un non fan, che conosceva Ben Harper forse solo per la famosa pubblicità della Lavazza, e ha tentennato sulla definizione del genere musicale di appartenenza del cantante e chitarrista americano, nonostante sembrasse un appassionato di musica, e fosse chiaramente interessato al concerto in serata.

Foto di Silvia Saponaro

Perché è così difficile incanalare il buon Ben, quest’anno musicista cinquantenne che porta in trionfo il suo vasto repertorio, applaudito con veemenza e riconoscente verso il suo popolo, in uno stile? Suona rock, pop, folk, blues? Reggae? Musica africana? Non si sa. Non si capisce. Questa difficoltà, questo piacevole enigma musicale che si ritrova anche in altri grandissimi artisti – mi viene in mente, per esempio, David Byrne, Joe Strummer and the Mescaleros o, per restare in terra italica, gli ultimi album dei Tre Allegri Ragazzi Morti o il gruppo alternativo bresciano 4 Axid Butchers – deriva, a mio modo di vedere, da una facoltà trasversale all’arte e alla musica, una facoltà puramente umana: la libertà di espressione. Quella libertà di espressione che porta Ben Harper, in una calda serata mantovana, insieme ai suoi fidati Innocent Criminals, a emozionare migliaia di persone mettendo sul palco percussioni afrocubane in salsa giamaicana per l’apertura con Burn one down, riff di basso funky in Fight for your mind, chitarre lap steel in stile country folk americano durante tutta la serata, e una batteria pop-rock, a tratti metal. E pazienza se avrei preferito che ci fosse stato almeno un altro chitarrista ad accompagnare la band, e se il mio gusto personale mi ha impedito di godere appieno della sontuosa presenza dello strepitoso bassista Juan Nelson.

Foto di Silvia Saponaro

Quando, durante i bis, comincia Diamonds on the inside, una canzone squisitamente e canonicamente pop, si ha la sensazione che Ben Harper avrebbe potuto avere molto, ma molto più seguito di quello che ha, sfruttando il suo talento con un senso più pragmatico. Ma, d’altro canto, vedere un artista di livello mondiale cantare a cappella in una piazza gremita, oppure vederlo stoppare la propria band durante l’intro di Steal my kisses, per ringraziare le mani all’unisono del pubblico battere il ritmo, visibilmente emozionato e sincero, ecco, questo non ha prezzo. Come non ha avuto prezzo per Ben Harper, e non ce l’avrà mai, seguire la musica che gli esce dal cuore.