«È meglio vedere un film che un incontro di tennis perché non sopporto vedere qualcuno che potrebbe perdere» disse un giorno Andy Wharol. All’indomani dell’epica finale di Wimbledon tra Djokovic e Federer, quelle parole ci scorrono ora davanti agli occhi come i titoli di coda di un film dal finale amaro. Amarissimo. Lo sport, si sa, è crudele e non guarda in faccia nessuno: si alimenta di zuccheri come miti e sentimenti che regolarmente riequilibra con le proteine del crudo cinismo.

«Sei solo, lì nell’arena: tu e lui, il tuo avversario, lui e te sul ring. Solo il pugilato è più duro del tennis» ci disse un paio d’anni fa Corrado Barazzutti, uno che di corride nell’arena se ne intendeva. La tv accesa a veder quei due prendersi a pallate, cinque ore e passa sul divano, la tua pagana sindone stampata sullo schienale; è domenica, fuori c’è il sole splendente, ma è come se piovesse a dirotto. E di che succede fuori, non te ne frega assolutamente nulla. Esiste solo il centrale di Wimbledon, il tuo ombelico del mondo, perché sai che lì si potrebbe scrivere una pagina di leggenda.

È difficile, Djokovic è un chirurgo, ma quando al quinto set Roger brekka Nole e sull’8-7 va servire per il nono sigillo ai championships non puoi non crederci. Ancora di più ci credi quando sul 40-15 lo svizzero ha due matchpoint a disposizione. Ora manca davvero tanto così, l’ultimo passettino per il mito. Federer li spreca come peggio non potrebbe; sul primo la fretta lo induce a sparare malamente una pallaccia in corridoio, sul secondo va a rete col braccino servendo così su un vassoio d’argento il passante incrociato al serbo: un suicidio. Ostie e madonne, le mani che ti sudano, il magone che ti sale su per l’esofago. Al tie-break, due matchpoint li ha Djokovic, e lui invece la ghiotta occasione non se la fa sfuggire.

Lendl-McEnroe a Parigi nel 1984

Ecco l’impronta del ceffone che il crudo cinismo puntualmente rifila a miti e sentimenti. E tu ci rimani di sasso. Affranto come nel 1979, quando a tredici anni vedesti su quella stessa erba, ma meno rasa e più veloce, Adriano Panatta gettare alle ortiche l’opportunità della vita contro il modesto Pat Duprè, o come nel 1984, quando quel geniaccio di Mac, in vantaggio di due set, si fece rimontare da Ivan Lendl in una finale del Roland Garros divenuta inferno. Ferite mai rimarginate. Alla collezione aggiungiamo ora questa finale di Wimbledon.

Contro Djokovic, Federer ha chiuso il match con tutti i numeri a suo favore: ha fatto più punti, più game, più vincenti, più break, più ace. Ha offerto la consueta lezione di tecnica cristallina e a quasi 38 anni ha giocato un match epico contro un muro di gomma. Eppure ha perso. Ha perso perché non è pervenuto nei momenti topici: dei due matchpoint abbiamo detto, ma ancora più incredibile rimane il fatto che un giocatore con le sue caratteristiche non sia riuscito a incassare nemmeno un tie-break su tre. Quando avrebbe dovuto essere il suo maggior asset, il servizio lo ha abbandonato. Discriminante pagata a caro prezzo.

Eppure su quel 8-7/40-15 abbiamo per un attimo accarezzato la pazza idea che il sentimento romantico potesse spezzare le redini al cinismo. E invece il cinismo ha spezzato le redini a noi, che già ci accingevamo ingenuamente a lasciarci abbracciare dal piacere dell’epica elegiaca sfogandola in un’esplosione sui tasti del computer. Sarebbe stato sin troppo bello, ammettiamolo.

Abbiamo pensato che l’arte potesse avere la meglio sulla geometria, che Caravaggio i capolavori mica li firmava con squadra e righello. Ci siamo spinti però un po’ troppo in là finendo per essere travolti come Paolo e Francesca dal vento della passione. L’altare del mito ci ha guidati fuori strada nel commettere un grave errore di valutazione. Era in fondo solo una partita di tennis che Roger Federer pennellava ma Nole Djokovic radeva fino a riportarci sulla terra. Mannaggia.