Siamo di nuovo in quel periodo dell’anno. Non si tratta delle festività natalizie per fortuna passate o dell’anno nuovo con il suo carico di aspettativa e vecchi proponimenti. Stiamo parlando della terribile agonia della “finestra di mercato”, che costituisce l’ennesima botta al delicato organismo di quella bestia mitologica metà tifoso e metà osservatore e studioso di calcio. Si tratta di un mesetto, tra dicembre e gennaio, in cui il campionato più bello del mondo – ipse dixit – viene sospeso, abbandonando orde di appassionati a vagolare nello zapping alla ricerca di qualcosa che dia un senso alle giornate.

È una rivendicazione sindacale ottenuta dai calciatori, un giusto diritto a passare qualche tempo di riposo con le famiglie; rivendicazione che viene pure ammantata di honestà, in quanto permette di negoziare e definire il trasferimento di un giocatore senza che questi sia costretto a stare in campo per chi lo sta cedendo, o addirittura a giocare contro la sua prossima squadra. Quale che sia la motivazione che per prima ha trascinato l’altra, non è poi importante.  Qui, ora, rileva soltanto la conseguenza: per tre settimane siamo orfani e disperati. Se qualcosa può salvarci è la English Premier League (EPL per gli acronimisti o solo Premier tra gli adepti), il campionato inglese che non si ferma mai, neanche a gennaio.  

Nasce nei primi anni Novanta – dopo oltre cento come Football League – con una serie di obiettivi, tutti raggiunti: rifondare un movimento scosso dalle recenti tragedie, rendere le società indipendenti nella gestione dei diritti televisivi, riaccendere l’interesse della gente e farla tornare allo stadio dopo gli anni in cui il calcio inglese finiva sulle prime pagine per il fenomeno degli hooligans, un cruccio personale della signora Thatcher, allora primo ministro. Nel 1985, mentre in Italia si compiva il miracolo dello scudetto al Verona, il calcio d’oltremanica veniva scosso dagli eventi dello stadio Heysel: gli scontri tra le tifoserie di Liverpool e Juventus andarono letteralmente a sbattere contro le pens (i pollai, come venivano definite le recinzioni dai fini umoristi d’Albione) causando la morte di 39 persone e, come danno collaterale, l’esclusione delle squadre inglesi dalle competizioni internazionali.

Con la seconda pietra miliare, la morte dei “96 di Hillsborough”, fu deciso un intervento radicale. Non più soltanto daspo e divieto di vendere alcolici, bensì una rivoluzione culturale completa: da un lato, massicci investimenti in stadi più sicuri (con buona pace delle meravigliose terraces dove si cantava in piedi), posti assegnati, eliminazione delle barriere e sicurezza in capo alle società al posto dei pruriginosi manganelli dei poliziotti; dall’altro, la responsabilità oggettiva per le società e quella diretta per gli spettatori, con tanto di cella negli stadi e di carcere vero dopo la partita. Tutti provvedimenti richiamati dalla convenzione europea in materia e recepiti anche dall’Italia. Un po’ per la lentezza mediterranea e un po’ per il sistema punitivo più tollerante, la situazione in Italia è ben diversa e il problema hooligans (o ultras, per usare il termine nostrano) si è solo spostato più in là, lungi dall’aver trovato una soluzione.

Concludiamo sulle infrastrutture, logistiche e normative, riportando i dati di presenze negli stadi. Forse perché il liberismo in UK ha permesso di fiutare il business, gli impianti inglesi, oltre a essere moderni e bellissimi o proprio nuovi, sono dotati di spazi commerciali, di musei, negozi di merchandising e di asilo. Nella scorsa stagione, la media nelle venti squadre di Premier vede quasi 40.000 spettatori a partita, che diventano addirittura 60.000 se si considerano le big four. Un parallelo con l’Italia, offre ben altri numeri: 25.000 circa gli spettatori presenti, 45.000 calcolando solo le prime quattro squadre. Inutile nascondersi dietro le TV e il “tifoso da divano”, visto che la Premier è seguita da 150 emittenti televisive e i biglietti per le partite hanno un costo medio intorno ai 50 euro. Eppure vanno allo stadio, perché lo spettacolo è sicuro, bellissimo, indimenticabile. E si gioca a pallone.

Sembra banale, ma gli affezionati calciofili sanno che nelle partite di Premier si possono vedere cose che noi italiani possiamo solo sognare. È un campionato che non si ferma mai, si diceva; non solo a gennaio, proprio mai. Le partite iniziano correndo come pazzi e finiscono sempre correndo solo al fischio dell’arbitro; non si fanno prigionieri e non si ha nessuna pietà per il nemico, è anzi considerato irrispettoso smettere di giocare per non infierire su chi è visibilmente più debole. I giocatori hanno un fisico praticamente umano, non come certi energumeni che girano dalle nostre parti, con una propensione per flessibilità e velocità (a discapito di massa/forza), le doti necessarie nel continuo gegenpressing, sia esso sviluppato in contropiede old style “duetocchigoal” oppure con manierismi orizzontali. L’unica costante è il movimento, incessante e ipnotico. Una partita di Premier sembra durare il tempo di una birra, forse perché ci si dimentica proprio di bere (e respirare) mentre la si guarda.

Un altro aspetto da “altro mondo” è il comportamento dei giocatori, al di là del fattore atletico. Agonismo e rivalità alle stelle ma nessun piagnisteo o aggressione all’arbitro, che non ha bisogno di difendersi da male parole e che impartisce gelo e saggezza con il semplice sguardo. Gli arbitri sono anziani: corrono e sono presenti all’azione meglio dei calciatori stessi ma sono evidentemente più maturi dei nostri e questo può contribuire sia in termini di esperienza che di rispetto da parte dei ragazzini col pallone. Ragazzi giovani ce ne sono molti, non esistono in Inghilterra preclusioni mentali all’utilizzo dell’Academy in prima squadra. La “promozione” nella lista dei grandi avviene con un rituale indimenticabile, figlio e padre dell’attaccamento alla maglia. In Italia, le giovanili si usano per fare plusvalenze, nemmeno tanto realistiche, e i ragazzi che fino a un momento prima erano acerbi rischiano di essere già vecchi l’anno successivo. A qualsiasi età, chi simula o accentua un contatto non viene perdonato: quel peccato veniale gli verrà ricordato ogni volta che affronterà la stessa squadra, ma non solo quella. L’etichetta di diver (tuffatore) è difficile da perdere, pensate che esistono addirittura le statistiche del peggior frignone della Premier! Se cadi e rotoli urlando, ti conviene uscire in barella, e per magia gli insulti si trasformeranno in un applauso di tutto lo stadio. Sempre e a chiunque.  

In tema di statistiche, un vero culto del calcio inglese, qui trovano fama tutti i ruoli, non soltanto gli attaccanti. La classifica degli assist (cioè di chi fa tutto il lavoro e alla fine segna un altro) trova più visibilità di quella dei cannonieri stessi ma niente supera per romanticismo, nell’immaginario dell’innamorato di calcio, la statistica solo inglese dei tackles. Il contrasto, si direbbe da noi: quella forma sublime di violenza elegante che toglie il pallone da chi lo vorrebbe invece tenere tra i piedi; il coraggio di affrontare da uomo l’avversario, io contro te e che il migliore passi, in gesti atletici al limite della fisica e un clamore di tibie e malleoli. Il tackle è il riassunto stesso della concezione inglese del calcio: un terzo di rugby, un terzo di soccer e un terzo di cavalleria, con due gocce di sense of humor.

La Premier salverà sicuramente tutti noi dal digiuno calcistico forzato, ma potrebbe fare anche qualcosina in più: potrebbe salvare il moribondo sistema calcio europeo dall’involuzione su se stesso, dal continuo rispecchiarsi negli anni della gloria, ormai perduta, in questo sport che viene da molti definito “moderno”, ma a ben guardare è solo imbellettato, a coprire le rughe di troppe notti insonni pensando a come spremere più soldi dagli appassionati, senza reinvestirne nemmeno uno.