Che curve pennellava Peter Runggaldier sui pendii del circo bianco.  Sciatore estremamente tecnico, la neve l’accarezzava grazie alla morbidezza dei suoi tratti. Fu alfiere dell’«Italjet», la nazionale azzurra di velocità che negli anni novanta raccolse grandi successi in parallelo a quanto faceva Alberto Tomba nelle cosiddette discipline tecniche. Kristian Ghedina, Alessandro Fattori, Pietro Vitalini, e i gardenesi Werner Perathoner e lo stesso Peter Runggaldier furono gli eredi di Hebert Plank prima, e Much Mair dopo; firmarono in quel memorabile decennio uno dei più bei capitoli della storia dello sci azzurro. Nel 1991, l’argento di Peter Runggaldier ai mondiali di Saalbach regalò all’Italia una medaglia mondiale che ci mancava dai tempi di Zeno Colò. Oltre a quel metallo prezioso, Peter vanta due vittorie in coppa del mondo e ben  dodici podi, due dei quali sulla Streif di Kitzbuhel, l’università dello sci.

Insieme ad Ernesto Kieffer, lo abbiamo recentemente incontrato a Verona e ripercorso con lui le tappe di una carriera durata tredici anni, dal 1987 al 2000. «La mia storia parte da Selva di Valgardena dove sono nato. Ho iniziato a sciare a cinque anni. Quinto di sette fratelli, sono cresciuto nello Sci Club Gardena. I miei primi risultati furono due argenti, in discesa ai Campionati Italiani Ragazzi e al Trofeo Topolino. Dopo essermi messo in luce nelle gare Fis, entrai in Nazionale C. Nel 1986 presi un bronzo ai mondiali juniores in combinata a Bad Kleinchircheim. L’anno seguente debuttai in coppa del mondo». L’inizio non è facile. Il grande salto si rivela più duro del previsto: «Ero in squadra con Michael Mair, Danilo Sbardellotto, Alberto Ghidoni. Mi pareva un sogno. E invece beccavo distacchi abissali. Pensavo di non potercela fare , quando finalmente arrivarono i primi risultati; nel 1989 ottenni buon piazzamento in un SuperG di coppa del Mondo, quando mi piazzai davanti ad un certo Alberto Tomba».

Già…l’Alberto nazionale, il numero uno, una stella che brillava di luce propria nel firmamento azzurro: «Lui aveva un team tutto per sé. Ma abbiamo avuto modo di stare insieme quando partecipava alle gare di SuperG. Si vedeva che era un fuoriclasse, un predestinato. Portò una ventata nuova. Aveva il suo carattere e le sue esigenze. Era il dominatore della scena, ma dai suoi successi traemmo beneficio anche noi. Fu luce riflessa». Tomba era un’entità a parte, al di fuori delle dinamiche della squadra: «Fu giusto così. La decisione di creagli uno staff su misura pagò eccome. Aveva solo bisogno di tranquillità. Gustavo Thoeni era l’uomo giusto per infondergliela». 

Peter e la coppa di SuperG vinta nel 1995

Nel 1989, nel SuperG di Val d’Isere Peter sale per la prima vola sul podio, tuttavia non è una bella giornata per lo sci azzurro: «Ottenni un buon terzo posto, ma in quella stessa gara Tomba cadde e si ruppe la clavicola. Quell’infortunio gli costò la coppa del mondo. Da quel giorno si concentrò esclusivamente su gigante e slalom. La coppa la vinse nel 1995: per riuscirvi dovette vincere qualcosa come undici gare in una stagione». Il 1991 segna la consacrazione di Peter con l’argento ai mondiali di Saalbach: «Fu una gara a due facce. Nella prima parte del tracciato, difficile e fatto di continue contropendenze, risultai il migliore. Purtroppo persi tutto il vantaggio nella seconda parte, praticamente un’autostrada fino al traguardo, dove pagai dazio alla mia mancanza di scorrevolezza. Così Franz Heinzer recuperò il distacco e vinse il titolo».  Il 1995  è l’anno dei grandi successi: Peter vince la sua prima gara di coppa a Whistler, ottiene una serie di piazzamenti che gli valgono nelle finali di Bormio la conquista della coppa del mondo di SuperG. È il primo italiano a riuscirvi: «Fantastico. Che giornate per lo sci italiano! Io vinsi la coppa di SuperG, Alberto Tomba la generale, che mancava all’italia da vent’anni quando fu Gustavo Thoeni a sollevarla in trionfo al termine di un epico duello con Ingemar Stenmark che ebbe l’atto conclusivo nell’indimenticabile slalom parallelo di Ortisei». 

Peter in azione a Chamonix. Ha chiuso la carriera con un argento ai mondiali, due vittorie e dodici podi in coppa, e la coppa del mondo di SuperG nel 1995

Su tutte, nel cuore di Peter alberga una pista; non può che essere la regina, ovvero la Streif di Kitzbuhel: «Sognavo di vincere lì. Ci andai vicino in  due occasioni, quando arrivai secondo per pochi centesimi. Sulla pista di casa, la Saslong in Valgardena, non sono invece mai riuscito ad esprimere le mie qualità. Tanta pressione, difficile da gestire. Ma sulle Gobbe del Cammello mi divertivo come un pazzo». Chiusa la carriera nel 2000, Peter è stato direttore tecnico del centro agonistico di Selva di Val Gardena. Oggi collabora con Superski Dolomiti, e d’estate nell’organizzazione del Sellaronda Bike Hero. È attualmente direttore tecnico del Porsche Sci Club: «Lo sci è uno sport magnifico, ma molto probante. Ci si gioca tutto sui filo dei centesimi. Conta molto l’aspetto psicologico. L’unico mio rimpianto è quello di non aver potuto essere protagonista alle olimpiadi di Albertville del 1992. Purtroppo ebbi un serio infortunio al ginocchio che compromise la mia partecipazione.  Peccato, perché quell’anno andavo forte e avrei potuto dire la mia».

La chiosa è sul fenomeno Marcel Hirscher, che col settebello di sfere di cristallo, dopo aver frantumato il record di cinque appannaggio di Marc Girardelli, punta adesso deciso all’ottava sinfonia: «È una macchina perfetta. Cura e programma ogni dettaglio. Non sbaglia un colpo. Sinceramente non vedo chi lo possa battere». Grazie Peter. Quella morbidezza e quel garbo con cui designavi le curve in pista, sono gli stessi con cui ci hai raccontato la tua storia.