“La memoria non è come un pozzo da cui attingi, un archivio. Quando ricordi qualcosa, ricordi il ricordo, l’ultima volta che l’hai ricordato e non l’origine. Quindi diventa sempre più confuso, come una fotografia della fotografia, non diventa mai chiaro. Perciò anche un ricordo recente può essere inattendibile perché è sempre nel processi di dissolversi”.

Le parole sono di Tess, uno dei personaggi protagonisti di Marjorie Prime, film presentato alla seconda edizione dell’Extra sci-fi Festival di Verona. Il concetto di memoria come elemento fallace sembra legarsi direttamente ad After Yang, primo lungometraggio che abbiamo visto al festival quest’anno, e che tra cloni e androidi scavava nell’inconscio dei ricordi per abbattere in un certo senso l’avvento del post-umanesimo.

Un dramma sci-fi chiuso in quattro mura

Anche il film diretto da Michael Almereyda è ambientato in un futuro prossimo, dove gli ologrammi possono rappresentare i nostri cari passati a miglior vita, condividendo con noi esperienze del passato. Questa particolare tecnologia però può essere manipolata e con essa anche la memoria.

Assume i connotati del kammerspiel sci-fi Marjorie Prime, essendo ambientato quasi esclusivamente tra le mura della casa della ottantaseienne Marjorie, signora che attraverso l’ologramma del marito rivive nei ricordi o presunti tali.

La natura perciò intima della vicenda si sposa perfettamente con la regia di Almereyda, composta per la maggiore da campi e controcampi, dialoghi che si interrogano sul valore del passato, su come sia fondamentale nel ruolo psico-analitico del superamento del trauma. Il minimalismo della scenografia e delle prove recitative di un cast da urlo (Lois Smith, Jon Hamm, Geena Davis, Tim Robbins) dona a Marjorie Prime l’aura di un film sui fantasmi, pregno di scheletri nell’armadio da cui i protagonisti vogliono liberarsi mediante una ricostruzione della memoria.

L’etica entra quindi in gioco: dov’è il confine tra il far star bene i propri cari e una ipotetica elevazione divina? Dov’è il un punto di non ritorno?

Un futuro che non è più utopico

Ciò che affascina e al tempo stesso spaventa, forse ancor di più di After Yang, è che il futuro a cui assistiamo pare essere veramente prossimo, se non già arrivato. Pensiamo agli ologrammi di figure di spicco defunte, ad esempio di cantanti che si esibiscono live ai concerti. Certo, in quel caso non c’è una interazione con il pubblico, ma se a questi ologrammi venisse applicata una tecnologia come ChatGPT? Allora il marito defunto di Marjorie non sembrerebbe più una realtà tanto cinematografica.

Sebbene quindi si possa concretamente superare un trauma, alleviare le pene della vecchiaia, in un certo senso l’avvento dell’intelligenza artificiale ci riconduce non a una post-umanità utopica, ma ad umanesimo storico, figlio del nostro genio in quanto persone dotate di una memoria difettosa.

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