Venerdì 13 maggio 2022 ha avuto luogo il primo incontro del Festival del Giornalismo di Verona. Il tema della conferenza incontra perfettamente quello del festival: “Origini e soluzioni dello scandalo Pfas”, parlando di problematiche ambientali della zona. I due ospiti difatti hanno prima spiegato lo scandalo, attualmente trattato al Tribunale di Vicenza come uno dei più grandi di questa tipologia in Italia, per poi visionare le possibili soluzioni che si stanno mettendo in atto.

Approfondisci la storia della vicenda: PFAS, il veleno delle acque venete

L’origine dello scandalo

Con la mediazione della giornalista Alice Cristiano, Luca Fiorin ha prima fatto un piccolo excursus di tutta la vicenda, fino ai giorni nostri. Nonostante vi sia stato un inquinamento storico negli anni ‘70, con la presenza sottoterra di alcune sostanze chimiche nel terreno dell’azienda incriminata, la ex MITENI, i primi passi verso la verità iniziarono solo nel 2011.

In quell’anno furono fatte delle ricerche a livello internazionale su queste sostanze. La causa scatenante fu lo scalpore suscitato dal caso americano della DuPont, che aveva inquinato l’intera atmosfera intorno alla sua azienda causando problemi di salute ai cittadini e un alto tasso di mortalità (tutto raccontato nel film Cattive acque di Mark Ruffalo, 2019).

Così 2013 fu individuata una alta concentrazione di queste sostanze fra le province di Verona-Vicenza-Padova, coinvolgendo la popolazione di 31 comuni. L’inquinamento registrato aveva dei valori particolarmente alti, tanto da poter mettere a rischio la salute della popolazione. Il rischio sanitario ha portato il Ministero della salute ad attivare uno stato d’emergenza gestito dal commissario Nicola Dall’Acqua.

La scoperta fu però in un primo momento archiviata per mancanza di studi sui limiti accettabili di Pfas, fino al 2017, quando Dall’Acqua riuscì a evidenziare questo reato, concentrandosi sul fatto che quelle sostanze avevano alterato la chimica dell’acqua. Difatti se ancora tutt’oggi non è un problema risolto, non è tanto per il tempo necessario ad attuare i provvedimenti (per esempio i 4 anni impiegati per costruire 60 km di tubature per portare l’acqua da una fonte di approvvigionamento alternativa) ma piuttosto per le difficoltà amministrative e burocratiche. I limiti imposti alle aziende sono spesso molto specifici e legati solo ad alcuni tipi di sostanze, che possono essere facilmente sostituite grazie alla continua ricerca nel campo chimico. D’altra parte, non sono ancora stati trovati dei validi sostituti ai Pfas, e le aziende non sono poi così interessate ad affrontare il problema finché riescono ad aggirare l’ostacolo. Inoltre non si sono fatte scrupoli nel fare ricorso anche alla regione, che aveva imposto dei limiti alle aziende; mente il Ministero è costretto ad attenersi a delle linee guida comunitarie.

Le Mamme NoPfas

Entrambi gli ospiti hanno evidenziato l’importanza della cittadinanza nella causa. Per Luca Fiorin è stato fondamentale l’aiuto delle Mamme NoPfas (precedute in un primo momento dalle associazioni ambientaliste). Sono riuscite a far comprendere l’importanza della causa anche a Bruxelles, nonostante, come afferma Fiorin, sia assurdo che le istituzioni trovino normale e trascurabile che le persone abbiano della “plastica nel sangue”. Inoltre grazie al loro contributo si è riusciti ad arrivare fino al Senato a Roma, dove si sta discutendo una proposta di legge per dei nuovi limiti; oltre che a mobilitare l’Onu: il commissario inviato dovrà redigere una relazione su tutto il caso. Inoltre Nicola Dall’Acqua ricorda l’impegno del movimento nel trovare un modo per spiegare ai bambini la situazione.

Il processo

Fiorin racconta che nel frattempo il processo in tribunale è entrato nel vivo, dopo una lunga fase preliminare: si è arrivati a leggere 15 degli 80 testi previsti. Ci si augura che in termini di lunghezza non replichi quello della DuPont, durato circa 10 anni. Sono in corso tre inchieste contemporaneamente, che lo identificano come il processo più grande di questa tipologia in Italia. Gli imputati sono incriminati per disastro ambientale, avvelenamento delle acque e reati fallimentari. Per quanto riguarda quest’ultimo, la ex MITENI diventata parte del complesso Icig, ha dichiarato fallimento nel 2018, non riuscendo a sostenere il costo delle bonifiche, e ha venduto all’asta i suoi macchinari a un’azienda indiana.

La bonifica e prevenzione

Dall’Acqua racconta di come Ministero e regione abbiano lavorato in due direzioni per mettere in sicurezza il territorio: utilizzare i filtri a carbone e cambiare le fonti di approvvigionamento, nonostante abbia comportato dei costi per le istituzioni (il ministero ha stanziato 54 milioni di euro) e per gli stessi cittadini. Il problema però non si ferma qui, difatti si prevede che le acque della falda rimangano inquinate per circa 80-100 anni, mentre i Pfas arrivano in tutto il mondo attraverso i prodotti alimentari.

Inoltre la bonifica della ex MITENI non è ancora avvenuta a causa della situazione covid e della guerra in Ucraina, ma si prevede che sia completata entro l’ottobre di quest’anno. Questa misura è ritenuta fondamentale dal commissario, in quanto in quella zona di riapprovvigionamento delle acque non sarebbe mai dovuta essere presente un’azienda del genere. Se solo fosse stata 50 km più a sud si parlerebbe di un inquinamento molto più ridotto. Le ricariche degli acquiferi di queste aziende non possono essere posizionate prima dei pozzi ad uso idro-potabile e soprattutto non possono essere vicino alla montagna. Collocare molti pozzi vicino alla montagna significa esporre tutte le acque della zona ad un rischio molto elevato di inquinamento. “È impossibile controllare tutte le aziende. Si deve fare un piano chiaro di dove le aziende possono lavorare e dove no” spiega Dall’Acqua.