Roma, lo sanno tutti fin dalle scuole elementari, sorge su sette colli: Aventino, Campidoglio, Celio, Esquilino, Palatino, Quirinale, Viminale. Ognuno di questi colli si porta dietro millenni di storia: ad esempio, pare che Remo avesse scelto l’Aventino come luogo di fondazione dell’Urbe, mentre Romolo il Palatino e così via.
La storia dei sette colli è la storia di Roma e la storia di Roma è quella d’Italia, ma uno di questi colli ha avuto e continua ad avere un ruolo molto particolare: il Quirinale.

Oggi sede della Presidenza della Repubblica, il Colle per antonomasia con i suoi vari inquilini che si sono alternati dal ’46 in poi è diventato il simbolo stesso del potere istituzionale nel Paese. Non sempre è stato così: scelto come residenza papale nel Rinascimento (per la verità poco amata, visto che i pontefici preferirono comunque sempre il Vaticano), con l’unità d’Italia divenne sede della corte reale.

Pio IX

Il primo Re, Vittorio Emanuele II, non amò mai il Palazzo, convinto che Pio IX, l’ultimo Papa Re, vi avesse lanciato una maledizione sopra, preferendo soggiornarvi il meno possibile.  Stessa freddezza di sentimenti anche per il primo Presidente della Repubblica, De Nicola, che decise di non prendere mai residenza al Quirinale, un po’ per rispetto alla monarchia (De Nicola era un fervente monarchico), un po’ per scaramanzia, pure lui convinto della maledizione del Papa (in effetti De Nicola a certe cose faceva molta attenzione, ad esempio rifiutò di ratificare il trattato di pace della Seconda Guerra Mondiale di venerdì, preferendo anticipare a giovedì 4 settembre 1947).

Il primo inquilino a tutti gli effetti sarà Gronchi, terzo Presidente. A Gronchi il Palazzo piace e non poco, tanto da aprire un piccolo passaggio nascosto che permetteva a uomini politici ed industriali (o altre accompagnatrici femminili secondo i pettegolezzi dell’epoca) di arrivare inosservati direttamente nell’ufficio presidenziale. Il Quirinale inizia quindi lentamente, ma inesorabilmente, a diventare punto centrale della vita politica del Paese, con accordi, decisioni, patti firmati nei suoi saloni ma anche misteri e segreti.

È un caldo pomeriggio agostano del ’64, al Quirinale ci sono l’allora Presidente della Repubblica (Segni), il Presidente del Consiglio (Moro), il Ministro degli Esteri (Saragat). I tre stanno litigando furiosamente e volano parole pesantissime, gli uomini dei rispettivi staff che aspettano fuori la porta sono sempre più imbarazzati. Ad un certo punto, Moro esce fuori dalla stanza gridando “Chiamate un dottore, il Presidente sta morendo”. I medici riusciranno a salvargli la vita ma non la salute. Segni, ridotto in gravissime condizioni e in semi infermità, sarà costretto alle dimissioni, è la prima volta nella storia della Repubblica. A succedergli, manco a dirlo, lo stesso Saragat, cioè uno degli unici due testimoni oculari di tutta la vicenda. Cosa sia effettivamente successo in quella sala il 7 agosto del ’64 non lo saprà mai nessuno. Nemmeno Moro, durante la sua prigionia nel covo delle Brigate Rosse, svelerà mai il mistero.

Aldo Moro

Il cielo sopra il Palazzo si copre sempre di più di nuvole di tempesta. Il successore di Saragat, Leone, viene travolto da uno scandalo per tangenti internazionali per facilitare l’acquisto di mezzi destinati all’esercito. Il 9 marzo del ’78, Leone chiama al Quirinale sempre Moro e gli confida la sua volontà di dimettersi e di indicare Moro stesso come suo successore. Non ci sarà il tempo. Il sogno presidenziale di Moro finisce una settimana dopo, il 16 marzo, in Via Fani, con il suo rapimento e il conseguente omicidio. È forse l’ora più buia per il Colle: travolto da scandali, sangue, morti e misteri troverà in Pertini l’uomo della riscossa.

Nell’immaginario collettivo è il Presidente che si alza in piedi a gridare di gioia in tribuna d’onore del Santiago Bernabeu di Madrid nell’82 al terzo gol di Altobelli contro la Germania Ovest, e il suo mandato segna di fatto la fine degli anni di piombo e l’inizio dell’euforia collettiva degli anni ’80. Arriva il secondo boom economico: nel Paese si diffonde una ricchezza e spensieratezza di cui dopo i difficilissimi anni ’70 si era perso il ricordo. Al Quirinale, siede il democristiano Cossiga e per i primi cinque anni, la sua presidenza si limita a partecipare ad eventi istituzionali, firmare quel che c’è da firmare e nominare chi c’è da nominare.      
Poi arriva Tangentopoli e Cossiga sveste i panni del rigido Presidente per diventare il “picconatore” della Repubblica. Tra il ’90 e il ’92, Cossiga non perde occasione per massacrare letteralmente il sistema politico italiano, dando nell’ordine sparso: a De Mita (all’epoca Presidente della Democrazia Cristiana) del «bugiardo, gradasso, il solito boss di provincia”; al Senatore Mancino sempre della DC uno che «se sta al mare fa un gran bene al Paese»; al Ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino «un analfabeta»; al Ministro della Giustizia Martelli «un ragazzino».

Francesco Cossiga

Questo clima da commedia all’italiana viene stoppato all’improvviso, di botto. Anzi, dal Botto. Mentre in Parlamento si sta votando per il successore di Cossiga, il 23 maggio del ’92 a Capaci, provincia di Palermo la mafia piazza 500 chili di tritolo sul tratto della A29 percorso dal giudice Giovanni Falcone, ammazzando lui, la moglie e tutta la scorta. La bomba uccide in Sicilia ma i rimbombi si sentono a Roma, dove nel frattempo Andreotti e Forlani si stanno dando battaglia su chi sarà il prossimo inquilino del Quirinale. L’onda d’urto di Capaci immobilizza tutto, dall’urna esce un terzo nome super partes, Oscar Luigi Scalfaro, fino ad allora Presidente della Camera.

Il resto è storia dei nostri giorni: gli inquilini del Colle che si alternano accompagnano il Paese nel III millennio, nella moneta unica europea, nella crisi del Covid-19 senza però raggiungere più, per fortuna, scene degne di House of Cards. Che la maledizione di Pio IX sia finalmente svanita?

Roma vista dall’alto

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