Il dilemma di cosa faremo quando l’ultimo testimone non ci sarà più è sempre più stringente in questi anni. Il progetto nazista di sterminio nei confronti di ebrei, sinti, rom, delle popolazioni dell’Europa orientale e dei Balcani, dei prigionieri di guerra, degli oppositori politici, i massoni, gli omosessuali, i disabili intellettivi e fisici, i testimoni di Geova e i pentecostali, continua a interessare gli storici, ma soprattutto è questione civile che non si deve assolutamente archiviare.

Ci si chiede tuttavia se la visita ai campi di concentramento non stia diventando un modo di semplificare la complessità di questa pagina orrifica della Storia. Da anni, comitive di scolaresche organizzano gite per vedere con i propri occhi e in qualche modo far parte di quella testimonianza. Una pratica che quest’anno manca particolarmente, per i limiti imposti dalla diffusione del Covid-19. Per questo, il ricordo di una studentessa veronese, andata nel 2017 a Mauthausen con la sua classe quinta del liceo Don Bosco, è una voce da ascoltare con attenzione. E riflettere su quanto possa radicare nella memoria personale l’aver visto, l’aver osservato, l’essersi fermati ad ascoltare il silenzio di certi luoghi, in connessione, sebbene a distanza di tempo, con la brutalità di un progetto criminale pianificato e folle (Fabiana Bussola).


Una strada tutta tornanti si arrampica sul dorso spoglio della collina. Macchie verde scuro di abete si alternano alle ultime foglie rosse dei faggi, il tutto incorniciato da alcune nuvole basse e grigie. Ad un tratto, dietro l’ultima curva, Mauthausen appare in tutta la sua crudeltà storica ed architettonica. A primo impatto, esso risulta come un grande rettangolo di cemento, statico, annoiato e dimenticato sulla cima della collina difronte.

Varcata la sua soglia è impossibile rimanere indifferenti di fronte al più assordante dei silenzi. Il panorama, la vegetazione che, nonostante tutto, ogni anno si rigenera, seguendo il ciclo implacabile della vita, le poche case che, in lontananza, si affacciano sul campo stesso. Tutto è inglobato dal silenzio. Un silenzio che, se ascoltato bene, però, racchiude ancora le preghiere, le grida, i sussurri di tutti coloro che, in quel luogo, hanno perso violentemente la vita.

Quello che quell’edificio ha celato per anni, è ora il suo più importante tesoro: la testimonianza di uno dei più grandi genocidi, di cui l’umanità si è macchiata. Ogni anno, questo lager di persecuzione e detenzione è visitato da migliaia di turisti, tra scolaresche in gita, coppie di anziani, giovani famiglie. Perché tutte queste persone, così eterogenee nella loro classificazione sociale ed anagrafica, sono spinte in questa fabbrica di morte?

In realtà, la risposta è molto semplice: per non dimenticare. Per non permettere che altri folli possano seminate tanto odio, per non lasciare che la pesante cortina del tempo e dell’ignoranza cancelli il sangue di quelle vittime.

Mauthausen venne aperto ai primi prigionieri, provenienti dal campo di Dachau, nel 1938 e, a poco a poco, si trasformò in un’enorme tomba nazista. Al suo interno vi erano detenuti politici, o presunti tali, zingari, ebrei, padri, fratelli, figli. Nel tempo in cui questa struttura di cemento e pianto rimase attivo, fino alla Liberazione avvenuta nel 1945 da parte dell’esercito americano, per quelle stanze passarono quasi 190.000 persone, provenienti da ben 40 Nazioni diverse. I morti accertati, comprendendo i campi satellite, si aggirano intorno ai 90mila, di cui quasi la metà perse la vita nei quattro mesi precedenti la Liberazione (fonte mauthausen-memorial.org, ndr).

Tra quei corpi, privati della loro voce, vanno considerati anche bambini, anziani e donne, i quali erano i primi ad essere uccisi in quanto non adatti al lavoro. Mauthausen, infatti, è ricordato come campo di prigionia e di lavoro grazie alla vicina cava di granito, estratto dai prigionieri per la costruzione dei lager stessi, ma anche per la realizzazione di edifici monumentali della Germania nazista. Quella cava, posizionata più in basso rispetto al campo, fu teatro di violenze, maltrattamenti, soprusi. I detenuti lavoravano costantemente, privati di attrezzature adeguate, assistenza medica e dignità.

Oggi, dalla recinzione del campo, è possibile scorgere la cima della “Scala della morte”, situata proprio in prossimità della cava. Da quei 186 gradini sconnessi e irregolari, ricavati a colpi secchi di piccone, precipitarono e perirono numerosi uomini, spinti dai propri compagni, scivolati a causa dell’estrema debolezza, caduti dal primo gradino in alto, a seguito di un colpo di pistola tra gli occhi. Con essi, a decine venivano trascinati fino in fondo. Morti. Quegli scalini non sentono più da molti anni il ritmo stanco del passo degli internati, ma dall’alto della collina di Mauthausen ancora oggi sembra di poter sentire i granelli di polvere che si spostano pesanti, al passaggio del vento. Ad ogni rumore, un sussulto di terrore e consapevolezza.

Il lager conserva, ancora intatti, i principali ambienti che lo caratterizzarono: lo spogliatoio, le docce ed il forno per gli oggetti personali di chi arrivava. I rubinetti arrugginiti penzolano minacciosi dal soffitto, mentre le piastrelle ingiallite sono ricoperte da nomi, date e riflessioni, che qualche visitatore ha pensato di lasciare nel corso degli anni. Più avanti, attraversato il campo, sono presenti alcune baracche ricostruite, un cimitero (nel settore II e nella zona tra le baracche 16 e 19 sono sepolte oltre 14.000 vittime, ndr), le anticamere ai forni e i forni stessi.

Questi due ultimi ambienti, al contrario del resto della struttura, non custodiscono alcuna voce antica, non celano nessuna preghiera, non possiedono nessuna traccia di vita passata. Durante la guerra conobbero solo la morte, furono popolati esclusivamente da cadaveri. Il gelo che li percorre è solo in parte dovuto alle rigide temperature invernali austriache. Lì si consumò l’ultima tappa del progetto di sterminio, lì si accatastarono migliaia di corpi smunti e violati, in attesa di divenire cenere, lì vennero spazzati via innumerevoli nomi.

Grazie ai registri, però, questi nomi sono stati recuperati e sono stati incisi su apposite lastre tinte di un nero lucido. Da lontano, appaiono come lunghe linee luminose orizzontali ma, dalla giusta distanza, è possibile leggere distintamente i nomi e i cognomi di anime ormai senza volto. Percorrere quello stretto corridoio tra le lastre, cercando di memorizzare anche un solo nome, è quasi impossibile. Varcata la soglia, appoggiato il primo piede fuori dal campo, quel nome svanisce nei nostri pensieri, forse perché, per troppo tempo e ingiustamente, è stato rilegato, rinchiuso, soppresso e ora vuole solo volare via, libero.

La memoria di questo lembo di storia non va cancellata. Quei nomi, anche se fugaci, vanno trattenuti e ripetuti, affinché, almeno il ricordo della loro vita, non venga perduto.

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