Il 6 gennaio 2021 nella storia dell’Occidente, non solo in quella degli Stati Uniti, sarà ricordato come uno dei giorni più drammatici e inquietanti per quello che è stato definito l’assalto a Capitol Hill da parte dei fans del presidente Trump. Non intendo soffermarmi in questa sede sui molteplici aspetti di quella vicenda, ma desidero coglierla come opportuna occasione per riprendere un tema caro ai teorici della filosofia del diritto e agli storici delle istituzioni politiche.

Come si è potuto constatare da tanti commenti sui giornali e sulla rete Internet, quegli eventi ci hanno portato a riflettere sulla natura della democrazia e sulle sue fragilità. Tanto più che negli ultimi tempi da più parti si sono sentite voci di positiva valutazione di modelli alternativi, come, ad esempio quello cinese o quello russo. Forse anche con qualche incertezza terminologica fra “democrazia” e “repubblica”.

Non diversamente, negli ultimi mesi il fondatore del Movimento 5 Stelle ha dichiarato più volte di non credere più alla democrazia parlamentare, ma di vedere nella democrazia diretta, attuata mediante le strumentazioni digitali, un autentico progresso istituzionale, che consente al singolo cittadino il protagonismo politico di cui sarebbe privato dai regimi dotati di organi di intermediazione, come ad esempio lo stesso parlamento.[1]

Vanno infine ricordati recenti interventi di alto profilo scientifico. I libri di Francesco Pallante e Jason Brennan[2]  toccano proprio le questioni base della democrazia e affrontano di petto problematiche le quali sembravano ormai accantonate per condivisa e indubitabile acquisizione da parte del pensiero politico occidentale. Vale dunque la pena che anche su questi argomenti riprendiamo alcune riflessioni sviluppate dagli antichi. Forse non a tutti è noto, infatti, che sulle forme di governo i Greci avevano già ampiamente dibattuto con profili di pensiero ai quali si sono ispirati quei filosofi dell’Illuminismo che hanno fissato le linee ideali e politiche dei regimi repubblicani e democratici sorti nel XIX e XX secolo.

Erodoto nel terzo libro delle sue Storie, dopo aver raccontato con dovizia di particolari la crisi del regime monarchico persiano, successiva a Cambise e precedente la salita al potere di Dario, immagina un meeting di altissimo livello durante il quale sarebbe avvenuto un serrato confronto fra alcuni uomini politici, protagonisti delle vicende che avevano salvato la monarchia persiana, sulla forma di governo da adottare dopo la cosiddetta “Crisi dei Magi”. I nobili Otane, Megabizo e Dario, difendono ciascuno rispettivamente i tre modelli fondamentali di governo: Democrazia, Oligarchia e Monarchia.

Cercherò ora in sintesi di riproporre i loro punti di vista e di confrontarli con la nostra esperienza contemporanea, per verificare se sia possibile trarre anche questa volta qualche insegnamento dalla storia, ammesso che essa sia, come si dice, “maestra di vita”. Prima però di affrontare direttamente i testi, sono necessarie alcune osservazioni a mo’ di premessa.

Innanzi tutto gli storici dubitano del fatto che effettivamente si sia svolto questo dibattito e pensano che Erodoto abbia ricostruito il confronto solo idealmente, secondo la tipica modalità della discussione politica ateniese. In sostanza Erodoto avrebbe proiettato in quella lontana situazione “fondativa” riflessioni sugli assetti politico istituzionali propri della Atene del suo tempo, ovvero della metà del V secolo a. C.

In secondo luogo il sostenitore della Democrazia, Otane, non usa mai il termine greco corrispondente a Democrazia. è come se Erodoto avesse ritegno nell’usare questa parola, che designa il tipico e peculiare regime ateniese del suo tempo, in un contesto come quello persiano, sentito dai greci come l’antitesi assoluta alla loro specificità culturale e politica. Le espressioni usate sono perifrasi che rinviano al concetto di Democrazia, ma mai compare in questi passi il termine preciso.

Infine una precisazione linguistica: i testi greci sono in dialetto ionico, che è leggermente diverso da quello proprio di Atene, ma la traduzione aiuterà a riconoscerli. Altre riflessioni aggiungeremo dopo una breve esposizione dei testi erodotei.

Orbene: le tre possibili forme di governo sono classificabili in base al soggetto che detiene il potere:

  • se sono in molti al potere avremo la Democrazia (δημοκρατία da δῆμος popolo + κράτος forza), che Erodoto chiama qui ἰσονομίη “isonomia” ovvero “uguaglianza delle leggi” nel senso di “uguaglianza di fronte alla legge” o, meglio, “parità di diritti” di tutti i cittadini;
  • se invece il potere è di pochi, οἱ ὀλίγοι, avremo l’Oligarchia ὀλιγαρχίη (da ὀλίγος poco + ἀρχή comando), ovvero il potere di un’élite che detta le leggi, secondo esse governa e le fa rispettare; 
  • se infine è uno solo a detenere il potere e a interpretarne la gestione, questi è μού­ναρχος “monarca” e ci troviamo nella Monarchia μου­ναρχίη, (da μό­νος solo + ἀρχή comando).

Diamo ora la parola a Erodoto.

Il discorso di Otane (3.80)

’Οτάνης μὲν ἐκέλευε ἐς μέσον Πέρσῃσι καταθεῖναι τὰ πρήγματα, λέγων τάδε· «’Εμοὶ δοκέει ἕνα μὲν ἡμέων μούναρχον μηκέτι γενέσθαι· οὔτε γὰρ ἡδὺ οὔτε ἀγαθόν. (…) Κῶς δ’ ἂν εἴη χρῆμα κατηρτημένον μουναρχίη, τῇ ἔξεστι νευθύν ποιέειν τὰ βούλεται; Καὶ γὰρ ἂν τν ριστον νδρν πάντων στάντα ς ταύτην τν ρχν κτς τν ωθότων νοημάτων στήσειε. ’Εγγίνεται μὲν γάρ οἱ ὕβρις ὑπὸ τῶν παρεόντων ἀγαθῶν, ϕθόνος δὲ ἀρχῆθεν ἐμϕύεται ἀνθρώπῳ. (…) Πλῆθος δὲ ἄρχον πρῶτα μὲν οὔνομα πάντων κάλλιστον ἔχει, ἰσονομίην. Δεύτερα δὲ τούτων τῶν ὁ μούναρχος ποιέει οὐδέν· πάλῳ μὲν γὰρ ἀρχὰς ἄρχει, ὑπεύθυνον δὲ ἀρχὴν ἔχει, βουλεύματα δὲ πάντα ἐς τὸ κοινὸν ἀναϕέρει. Τίθεμαι ὦν γνώμην μετέντας ἡμέας μουναρχίην τὸ πλῆθος ἀέξειν· ἐν γὰρ τῷ πολλῷ ἔνι τὰ πάντα».

Otane esortava a mettere in comune (lett. “in mezzo”) ai Persiani il governo, affermando quanto segue: «Mi sembra opportuno che nessuno più di noi abbia il potere da solo. (…) Come potrebbe essere qualcosa di corretto il potere di uno solo al quale risulti possibile fare ciò che vuole senza nessun controllo? E infatti anche il migliore di tutti gli uomini, venendo a disporre di questo potere, abbandonerebbe il suo abituale modo di pensare. Nasce in lui, infatti, la dismisura in conseguenza dei beni di cui dispone, d’altronde fin dalle origini è connaturata all’uomo l’invidia. (…) Se invece comanda il popolo, innanzi tutto questo governo ha il nome più bello, cioè “parità di diritti” e poi non fa nulla di ciò che fa l’uomo solo al comando: assegna infatti le cariche mediante sorteggio, ha un potere soggetto a controllo, affida alla comunità il compito di decidere. Propongo dunque che noi abbandoniamo la monarchia e amplifichiamo il popolo. Nei più infatti risiede ogni potere.»

Il discorso di Megabizo (3.81)

Μεγάβυζος δὲ ὀλιγαρχίῃ ἐκέλευε ἐπιτρέπειν, λέγων τάδε· «Τὰ μὲν ’Οτάνης εἶπε τυραννίδα παύων, λελέχθω κἀμοὶ ταῦτα· τὰ δ’ ἐς τὸ πλῆθος ἄνωγε ϕέρειν τὸ κράτος, γνώμης τῆς ἀρίστης ἡμάρτηκε. ‘Ομίλου γὰρ ἀχρηίου οὐδέν ἐστι ἀσυνετώτερον οὐδὲ ὑβριστότερον. Καίτοι τυράννου ὕβριν ϕεύγοντας ἄνδρας ἐς δήμου ἀκολάστου ὕβριν πεσεῖν ἐστι οὐδαμῶς ἀνασχετόν· ὁ μὲν γὰρ εἴ τι ποιέει, γινώσκων ποιέει, τῷ δὲ οὐδὲ γινώσκειν ἔνι. Κῶς γὰρ ἂν γινώσκοι ὃς οτ’ διδάχθη οτε εδε καλν οδν οκήιον, ὠθέει τε ἐμπεσὼν τὰ πρήγματα ἄνευ νόου, χειμάρρ ποταμ κελος; Δήμῳ μέν νυν, οἳ Πέρσῃσι κακὸν νοεῦσι, οὗτοι χράσθων· ἡμεῖς δὲ ἀνδρῶν τῶν ἀρίστων ἐπιλέξαντες ὁμιλίην τούτοισι περιθέωμεν τὸ κράτος· ἐν γὰρ δὴ τούτοισι καὶ αὐτοὶ ἐνεσόμεθα, ἀρίστων δὲ ἀνδρῶν οἰκὸς ἄριστα βουλεύματα γίνεσθαι».

Megabizo, invece, esortava a volgersi all’oligarchia: «Tutto ciò che Otane ha detto per por fine alla tirannide, valga anche come detto da me. In riferimento a quanto ha detto invece per favorire l’attribuzione del potere al popolo, non ha centrato il ragionamento migliore. Nulla è più privo di intelligenza e pieno di arroganza di una massa inutile. Perciò non è assolutamente ammissibile che per evitare la dismisura di un tiranno si cada in balia dell’arroganza di un popolo senza contegno. Quello infatti se fa qualcosa lo fa sapendo ciò che fa, questo non ha nemmeno consapevolezza delle sue azioni. Come potrebbe avere delle conoscenze chi non ha avuto un’istruzione, né ha avuto familiarità con alcunché di bello? Esercita il potere a testa bassa senza intelligenza, simile a un torrente in piena. Alla democrazia, dunque, si rivolgano quanti vogliono il male dei Persiani. Noi invece scegliamo un gruppo degli uomini migliori e a questi affidiamo il potere. Tra questi ci saremo sicuramente anche noi; è ben verosimile che dai migliori derivino le migliori deliberazioni.»

Il discorso di Dario (3.82)

Τρίτος δὲ Δαρεῖος ἀπεδείκνυτο γνώμην, λέγων· «’Εμοὶ δὲ τὰ μὲν εἶπε Μεγάβυζος ἐς τὸ πλῆθος ἔχοντα δοκέει ὀρθῶς λέξαι, τὰ  δὲ ἐς ὀλιγαρχίην οὐκ ὀρθῶς. Τριῶν γὰρ προκειμένων καὶ πάντων τῷ λόγῳ ἀρίστων ἐόντων, δήμου τε ἀρίστου καὶ ὀλιγαρχίης καὶ μουνάρχου, πολλῷ τοῦτο προέχειν λέγω. ’Ανδρὸς γὰρ ἑνὸς τοῦ ἀρίστου οὐδὲν ἄμεινον ἂν ϕανείη· (…) ’Εν δὲ ὀλιγαρχίῃ πολλοῖσι ἀρετὴν ἐπασκέουσι ἐς τὸ κοινὸν ἔχθεα ἴδια ἰσχυρὰ ϕιλέει ἐγγίνεσθαι· αὐτὸς γὰρ ἕκαστος βουλόμενος κορυϕαῖος εἶναι γνώμῃσί τε νικᾶν (…) Δήμου τε αὖ ἄρχοντος ἀδύνατα μὴ οὐ κακότητα ἐγγίνεσθαι· κακότητος τοίνυν ἐγγι­νομένης ἐς τὰ κοινὰ ἔχθεα μὲν οὐκ ἐγγίνεται τοῖσι κακοῖσι, ϕιλίαι δὲ ἰσχυραί. (…) Τοῦτο δὲ τοιοῦτο γίνεται ἐς ὃ ἂν προστάς τις τοῦ δήμου τοὺς τοιούτους παύσῃ· ἐκ δὲ αὐτῶν θωμάζεται οὗτος δὴ ὑπὸ τοῦ δήμου, θωμαζόμενος δὲ ἀν’ ὦν ἐϕάνη μούναρχος. (…) ῎Εχω τοίνυν γνώμην ἡμέας ἐλευθερωθέντας διὰ ἕνα ἄνδρα τὸ τοιοῦτο πε­ριστέλλειν».

Per terzo esponeva il suo pensiero Dario, dicendo: «A me le affermazioni di Megabizo intorno al popolo sembra le abbia ben dette. Non correttamente invece si è espresso sull’oligarchia. Ora ci stanno davanti tre possibilità, tutte ottime a parole: il miglior governo del popolo, l’oligarchia e la monarchia e io dico che que­st’ultima è di gran lunga la migliore. Nulla potrebbe sembrarmi meglio di un solo uomo che fosse il migliore. (…) nell’oligarchia fra i numerosi che si impegnano negli affari comuni di solito sorgono violente inimicizie personali, dal momento che ciascuno vuole essere il primo e prevalere quanto a punti di vista (…) Se poi è il popolo al potere è impossibile che non si sviluppino nefandezze. Ma in questo caso, quando si promuovono porcherie nei confronti del bene comune, fra i corrotti non sorgono inimicizie, ma forti relazioni di amicizia. (…) Questo succede fino a che uno del popolo messosi a fare il capo li fa cessare e ammirato per le sue azioni assume la posizione di monarca. (…) Ho dunque ferma convinzione che noi, acquistata la libertà grazie a un solo uomo, questo modello dobbiamo mantenere.».

Alla fine ebbe la meglio Dario e il regime persiano restò una monarchia. Ma torniamo al presente.

Non avremmo molto da commentare, non solo alla luce di quello che abbiamo visto accadere a Capitol Hill, ma anche guardando alle vicende italiane di questa metà di gennaio, con il governo in crisi per ragioni che difficilmente sono chiare ai più e che sembrano ricondursi pari pari alle osservazioni di Dario in merito all’oli­garchia.  Tuttavia credo che alcune essenziali osservazioni si impongano.

La situazione moderna è senza dubbio molto più complessa di quella antica e non può certo contemplare la possibilità di affidare le cariche per sorteggio, come avveniva  nell’Atene dell’età classica (almeno per quelle che non richiedevano specifiche competenze tecniche, come, ad esempio, quelle militari) . Esaminando il presente attraverso la lente di quelle essenziali e cristalline linee di riflessione, possiamo però dire che la stabilità di un sistema politico si basa su alleanze precise, a prescindere dalle dichiarazioni di parte politica e dai proclami della propaganda di regime.

Ricostruzione ideale dell’Acropoli e dell’Areopago di Atene in un dipinto di Leo von Klenze (1846)

La democrazia parlamentare è indubbiamente derivata dall’alleanza fra i molti e i pochi. Il popolo affida a un’élite temporanea ed elettiva il compito di approvare le leggi e la responsabilità di governo, ma questa élite dovrebbe render conto del suo operato. Quando l’élite si comporta come il “tiranno”, ovvero agisce nel proprio interesse e non si sottopone a rendiconto, è inevitabile che i molti perdano la pazienza e tendano a trovare una nuova alleanza o che i pochi, cioè qualcuno dell’è­lite, cerchino vie alternative.

A questo punto non si può non rilevare come, più che limitare i parlamentari (o ridurre il numero delle camere), sarebbe stato necessario porre dei limiti precisi alla possibilità di restare al potere. Dove non vi siano forme precise di rendicontazione o blocchi strutturali alle derive individuali, il solo meccanismo che consenta di evitare il formarsi di élite, assestate al potere senza possibilità di ricambio, è il limite al mandato, ovvero la impossibilità di ricandidarsi per la terza volta.

Questo principio sta funzionando benissimo nella elezione dei sindaci, i quali attualmente sono forse i politici più forti nel panorama istituzionale italiano, perché direttamente a contatto con i loro concittadini ed elettori. Ma la temporaneità rende anche sicuro il ricambio.  Il problema rimane invece per i rappresentanti in parlamento, che sono stati ridotti e collegati a collegi elettorali amplissimi, ma non sono ancora soggetti a limiti di rielezione, con un forte aumento del rischio che fra rappresentanti e rappresentati si allentino enormemente i collegamenti reali e subentrino fattori di natura mediatica e di immagine.  

Ed è qui che scatta il massimo rischio per la democrazia. Questo disgregarsi dei legami fra i molti (elettori) e i pochi (eletti)  porta inevitabilmente a problemi di natura politica e amministrativa, allontanando ancora di più l’élite elettiva dalla popolazione. Non è improbabile che si creino tante piccole monarchie locali, dei veri e propri feudi elettivi.

E dunque, che fare? o, meglio, che pensare? Non ci sono dubbi: la sola forma che garantisce una democrazia autentica e stabile senza degenerazioni è quella dell’al­leanza periodica e temporanea fra i molti e i pochi. Credo che dobbiamo rendercene conto, specialmente nei momenti nei quali le tentazioni verso pericolosissime derive di salvifica distruzione delle istituzioni presenti sono tali da indurre anche i più moderati e pazienti a prendere decisioni che non possono non essere gravide di conseguenze deleterie. La ricerca del Grande Moralizzatore, del Grande Sanificatore, di un Veltro contemporaneo, che rimetta a posto le cose, è sempre pericolosamente in agguato.

In simili contesti la storia recente ci ha peraltro insegnato che, a fronte di un’alle­anza apparente fra l’uno e i molti, in realtà nelle retrovie del potere quell’u­no cerca comunque il consenso di un’élite che lo sostenga. Tutte le dittature del Novecento sono nate da movimenti di popolo più o meno rivoluzionari e si sono poi tramutate in alleanze strette e vincolate fra l’uno e i pochi appartenenti a élite che lo hanno sostenuto e difeso: squadre armate speciali, strutture burocratiche, potentati economici, servizi segreti, frange golpiste delle forze armate, etc.

In pochi casi l’uno ha messo all’angolo le élite. Se lo ha potuto fare è dipeso da particolari condizioni create e favorite da formidabili strumenti di connessione emotiva ed economica, come nel caso degli imperatori romani che avevano messo all’an­golo il senato ed elargivano divertimento e pane alle plebi urbane con smisurate ricchezze personali. Ma anche quelle alleanze presto vennero meno e nel medio e basso impero solo l’elite militare poté garantire al singolo monarca il primato.

In questa fase storica sembra che disorientamento e incapacità di scelte siano inarrestabili nel corrodere il tessuto sociale delle nazioni che hanno dato vita alla civiltà occidentale e che in tale contesto vengano meno i fondamenti etici delle relazioni umane. Sembra davvero che il lavoro, le leggi, il rispetto per le persone e i limiti della libertà personale, i principi della civile convivenza abbiano perso ogni valore e che solo l’affermazione di sé, la ricchezza facilmente e velocemente ottenuta, la totale libertà individuale, anche nel disprezzo delle regole comuni, siano i canoni del nuovo assetto socio-politico.

È in questa temperie che si sviluppano, quasi come in una camera di fusione, ioni politici e sociali pronti a dar vita a composti imprevedibili e ad aggregazioni nuove sulle quali si fonda, come vede bene Dario, l’astuzia di un singolo che miri all’affer­ma­zione di sé.

Non abbiamo alternative dunque. I molti, se vogliono mantenere viva ed efficace la libertà e la democrazia, devono trovare salde alleanze ed elaborare duttili ed efficaci strutture di mediazione sociale e politica d’intesa con nuove e affidabili élite. In altre parole la complessità sociale ed economica del mondo contemporaneo non tollera forme semplificate di potere, ma organizzazioni complesse basate su relazioni avanzate, regolate da norme precise, nelle quali esperienza e innovazione si integrino dialetticamente senza traumi con costante possibilità di ricambio.

Le parole di Megabizo suonano quindi per noi come un avvertimento: «Come potrebbe avere delle conoscenze chi non ha avuto un’istruzione, né ha avuto familiarità con alcunché di bello?». Già: ancora una volta la sfida si gioca sul campo della formazione. Senza educazione, continua, incessante, non pedante, ma costruttiva e attenta alle persone, non è possibile evitare di cadere nel caos. Ancora una volta la scuola, quindi, con tutte le sue potenzialità e la sua strutturale fragilità ci potrà portare fuori dalla palude. Non esiste democrazia senza istruzione. Non esiste libertà senza conoscenza e capacità di consapevoli scelte.

L’élite dei tecnocrati e dei potentati finanziari teme la cultura e la conoscenza diffuse; ama invece gli standard comportamentali, in quanto prevedibili e controllabili. E dunque ancora una volta dobbiamo ribadire che solo nella scuola adulti e giovani possono trovare creatività e potenziali innovativi capaci di superare le contraddizioni e gli attriti che i sistemi sociali devono costantemente affrontare. Il patto per il futuro oggi non riguarda più gli accordi fra le classi, ma l’intesa fra le generazioni e il rilancio di un sapere significativo ed eticamente strutturante.

Ma una scuola che regali i titoli non può affrontare questi compiti complessi. Senza una matura, radicale riorganizzazione del sistema di istruzione e formazione e una severa verifica della preparazione culturale dei giovani non si riuscirà a fronteggiare il terribile compito di mantener viva la democrazia. Le avvisaglie di un’imprepa­ra­zione diffusa e di un degrado avanzato dell’istruzione inquietano quanti hanno a cuore il futuro del nostro paese. In altre parole senza memoria, senza cultura, senza l’etica della conoscenza non sarà possibile nessuna progettualità. La sfida del futuro ha un cuore antico.


[1] In particolare una videoconferenza in collegamento con il presidente del Parlamento Europeo. Sulla rete si trovano numerosi link alla registrazione dell’evento.

[2] Francesco Pallante, Contro la democrazia diretta, Einaudi, Torino 2020; Jason Brennan, Contro la democrazia, LUISS, Roma 2018