L’ottava produzione letteraria di Lorenzo Fabiano accompagna questa volta i ricordi degli sportivi, e degli amanti del calcio in particolare, al lontano 13 giugno 1974, il giorno del match tra Brasile e Jugoslavia, partita inaugurale di uno dei campionati del mondo più appassionanti e avvincenti della storia. Dopo aver recentemente narrato le vicende di eroi del pedale con Il duello Moser contro Fignon. Una sfida leggendaria (scritto a quattro mani con Matteo Fontana ) e La Presa della Bastiglia, la romantica penna dello scrittore veronese torna al calcio e ai Mondiali del 1974 in Germania, da molti catalogati come quelli dove sarebbe cambiata la storia del football. Il mondiale, a detta di tanti, se non di tutti, migliore di sempre.

Il libro, da leggere tutto d’un fiato, si intitola appunto Ho visto la rivoluzione perché, proprio come scrive Fabiano, «nulla sarebbe stato più come prima». L’emozionante narrazione si snoda veloce sullo sfondo nostalgico di un’estate vacanziera trascorsa tra le antiche mura della città di Verona, le sinuose rive del Lago di Garda e la luccicante spiaggia di Lignano Sabbiadoro, luoghi incantati dove lo scrittore passa i mesi estivi della sua felice infanzia. Contornato dagli inseparabili amici di ogni anno e dalle presenze saltuarie di due grandi esperti di calcio come nonno Aldo e papà Vito, non si perde una sola partita di quel memorabile mondiale. I suoi occhi di bambino innamorato del gioco più bello del mondo sono tutti per la «rivoluzionaria» Olanda dove la stella è senza dubbio Johan Cruijff. Lo scontro con la «riformista» Germania Ovest capitanata da Kaiser Franz Beckenbauer, padrona di casa, troverà il suo epilogo nella finale del 7 luglio, quando contro ogni previsione, saranno proprio i coriacei tedeschi a portarsi a casa l’ambito trofeo. In quella occasione, così belli da vedere e da ammirare, gli olandesi si guadagnarono il curioso ossimoro di perdenti vincitori, quasi a significare l’immagine a tratti indelebile di una squadra rasente la perfezione, che pur uscendo sconfitta dal campo, riuscì a cambiare per sempre il mondo del calcio, mandando letteralmente all’aria qualsivoglia dogma o certezza, conquistando con pieno merito l’affetto, l’entusiasmo e l’ammirazione di strade e piazze di ogni angolo di mondo. 

Una foto dell’Olanda ai mondiali del 1974

Il racconto, tra una partita e l’altra, scorre via leggero intervallato da curiosi ritratti, appassionati e nostalgici, di protagonisti a volte anche dimenticati, che da quel mondiale, ognuno per motivi diversi e a volte opposti, hanno lasciato un segno tangibile nella storia del calcio. Oltre al già citato Jhoan Cruijff, parliamo di campioni indiscussi come i tedeschi Franz Beckenbauer, Gerd Muller e Paul Breitner, gli olandesi Johan Neeskens e Jhonny Rep, i polacchi Kazimierz Deyna e Grzegorz Lato o lo jugoslavo Dragan Dzajic. In mezzo a loro anche campioni destinati a  carriere in discesa come il brasiliano Francisco Marinho o l’argentino Renè Houseman, da molti considerato un misto tra Garrincha e Maradona, che si lasciarono andare troppo presto al fascino nefasto della bottiglia. Infine Jan Jongbloed, pittoresco portiere olandese, con addosso una maglia gialla con il numero 8 sulle spalle e ginocchiere da pallavolista, che dalla tabaccheria dove passava gran parte delle sue giornate si trovò catapultato come portiere titolare in un campionato del mondo. 

Il torneo tedesco diventò anche la pietra tombale del calcio italiano che, reduce dal titolo europeo del ’68 conquistato in casa e dal secondo posto del ’70 in Messico, non fu in grado di capire che il mondo del calcio stava completamente cambiando. Con una squadra dall’età media più alta di tutte e uno spogliatoio tutt’altro che unito, complice anche una Federazione a dir poco “invadente”, gli azzurri rimediarono una cocente eliminazione già al primo turno. Diventammo famosi più per il celebre “vaffa” di Giorgio Chinaglia verso la panchina di Ferruccio Valcareggi che per quanto fatto vedere sul terreno di gioco. Fu una vera e propria “Caporetto”. Una delusione, peraltro, che servì come trampolino di rilancio per centrare il quarto posto in Argentina quattro anni dopo e il titolo mondiale in Spagna nel 1982.

Questo mondiale fu anche una vera e propria storia nella storia. In quel mese in Germania ne successero veramente di tutti i colori. Sportivamente parlando e non solo. Ecco, ad esempio, la famosa comparsata nell’albergo dello Zaire degli uomini del dittatore Mobutu – di cui solo molti anni dopo venne a galla la verità – pronti a minacciare la morte dei parenti in patria se i giocatori, dopo le sconfitte con Scozia e Jugoslavia, avessero perso con più di tre reti di scarto con il Brasile, oppure la vicenda di Jurgen Sparwasser, attaccante della Germania Est che entrò nella storia del suo Paese come eroe nazionale quando castigò i cugini dell’Ovest, ma passò poi da traditore qualche anno dopo, prima della caduta del Muro, quando trovò furbescamente rifugio proprio nell’altra Germania.

Infine, una serie di interviste con alcuni protagonisti del burrascoso naufragio azzurro come Giuseppe “Pino” Wilson, Roberto “Bonimba” Boninsegna e l’immortale Dino Zoff che, contrariamente ai suoi compagni, sarebbe rimasto ben saldo al suo posto fino ad alzare al cielo la Coppa del Mondo ben otto anni più tardi, all’invidiabile età di quaranta primavere.

Il mondo del calcio stava cambiando e piano piano tutti cominciarono a rendersene conto. L’unico rammarico che traspare da queste pagine, forse, è quello che quell’Olanda, così bella e inimitabile, tanto da guadagnarsi l’appellativo di Arancia Meccanica, non raccolse nulla se non tanti complimenti da ogni latidudine. Agli occhi di tutti gli sportivi si presentò una formazione – come si legge nel libro – provvista in abbondanza di tutto: «organizzazione, collettivo, individualità, qualità tecniche, condizione atletica e, soprattutto, mentalità vincente». Molti si innamorarono perdutamente di quella squadra e Lorenzo Fabiano, con questo libro, conferma di essere stato uno di loro. Impossibile dargli torto.