Schizofrenia, crisi di astinenza da visibilità, incapacità di distinguere le esigenze dei professionisti dal mondo ludico ricreativo. Sono queste le caratteristiche che lo sport sta manifestando dopo l’avvento del Coronavirus. Dal principio della crisi epidemica, ormai quasi due mesi addietro, uno Stato forse incapace di offrire una serie di linee guida adeguate a fermare le diverse discipline in maniera ordinata, ha scelto uno stop ad allenamenti e campionati quanto mai confusionario. L’aspetto paradossale, inoltre, è stato quello di assistere alla chiusura delle scuole ancor prima del fermo imposto alle attività sportive. Da quel momento è iniziata una fase di dichiarazioni contrapposte e continui litigi che sembra ancora non aver trovato fine. Federazioni, Leghe, dirigenti sportivi, ognuno intento ad affermare le proprie esigenze, rivendicando i propri diritti e manifestando con forza l’ingente danno subito, sia esso supposto o reale. Unico obiettivo, valido per tutti, quello di riprendere il prima possibile allenamenti e gare, accompagnato da una sostanziosa richiesta di aiuti. Il risultato è stato un nuovo paradosso all’italiana con il rinvio delle Olimpiadi da una parte e campionati nazionali da salvare a ogni costo dall’altra.

La partita su questo tema è ancora in corso, maschia e dura come gli ultimi minuti di un derby bloccato sul pari. Nel frattempo l’intera cittadinanza rimane chiusa in casa, con parchi e piste ciclabili rigorosamente chiusi, sorvegliata da droni e mezzi militari, intenti a scovare isolati maniaci della tintarella o solitari cicliti dissenzienti.

Risulta davvero quasi impossibile associare le azioni e i comportamenti dei vertici sportivi con i valori fondanti dello sport come cura della persona, salute, educazione e formazione. Sembra quasi che questa imprevista epidemia sia riuscita in un colpo solo a far emergere tutte le annose contraddizioni che oramai da troppo tempo la fanno da padrone nel mondo sportivo dei nostri giorni.

Potremmo citarne, ad esempio, alcune, probabilmente le principali: il dilettantismo che si confonde con il professionismo sostanziale esercitato in varie forme, quasi mai riconosciuto, in primis per le donne; l’attività giovanile che si finanzia solamente grazie allo sport di vertice e ai contributi statali, con il fondamentale supporto di sponsorizzazioni non sempre erogate secondo i principi civilistici vigenti, un fenomeno la cui evidenza aumenta man mano che si sale di categoria; gli addetti non in regola o impropriamente regolarizzati grazie a leggi ad hoc, senza spesso tutele contrattuali, assicurative e previdenziali; le federazioni dedite all’elaborazione di minuziosi regolamenti anziché privilegiare lo sviluppo e l’innovazione, a tutela dei propri affiliati; la secolare assenza di investimenti in cultura sportiva e la mancanza di un collegamento tangibile tra scuola e sport. Se a tutto questo aggiungiamo la montante idea generale di un mondo sportivo ostaggio di interessi e poteri capaci di allontanarlo dalle proprie sane origini e dalla propria utilità sociale il quadro è completo.

In questa inaspettata situazione ognuno si è ingegnato secondo le proprie capacità. Gli atleti più bravi, più o meno influencer, si sono arrangiati mettendo in rete i filmati dei propri allenamenti o confrontandosi tra di loro sui temi più disparati, con gli allenatori spesso in veste di moderatori o protagonisti di altri momenti di confronto, sempre sul web, su futuri nuovi metodi di allenamento. In tale contesto è emerso il silenzio quasi assordante delle istituzioni che si sono limitate a vietare nella maniera più restrittiva ogni forma di attività sportiva. I vertici sportivi, inoltre, litigando tra di loro – vedasi ad esempio Figc/Lega serie A o Fipav/Superliga – hanno confermato l’incapacità di volgere uno sguardo verso un futuro che sarà forzatamente diverso da quello di oggi.

In questo scenario sono emerse le più disparate personalità, tra dirigenti sportivi prontamente spariti dai radar – in attesa che la situazione torni in ordine – e quelli onnipresenti e attenti a far sentire la loro voce, sempre in trincea pronti a far riprendere ad ogni costo l’attività. Alcuni sono rimasti ancorati al baluardo della legalità invitando semplicemente i propri adepti a rimanere a casa mentre solo in pochi hanno cercato di intercettare le criticità manifestati da chi fa sport, per cercare di capire fino in fondo i loro problemi, le loro paure e incertezze.

Qualcuno, come la Fipav Verona, si è inventato le mascherine con marchio federale, manifestando una ineguagliabile e indiscutibile vocazione nella valorizzazione del brand, rilanciando anche proposte originali come gare di solidarietà con vincitori e vinti, dei veri e propri campionati con scadenza delle iscrizioni prevista per il prossimo 30 aprile. La raccolta fondi e le donazioni rivestono un fine senza dubbio meritevole ma non andrebbero mai collegate a gare né tantomeno essere confrontate tra di loro.

In mezzo a tutto questo, lo sport sta dunque manifestando il suo lato peggiore, quello oscuro, sovente impulsivo e scarsamente lungimirante, quello rimasto sempre ben nascosto dietro l’entusiasmo delle migliaia di giovani praticanti, di addetti ai lavori più o meno volontari, dietro anche all’estetica delle gestualità dei grandi campioni. In questa situazione di emergenza serve, invece, da parte dei vertici sportivi una serie di risposte credibili e concrete, molto di più di quanto visto in questi ultimi due mesi. Serve cogliere al volo l’opportunità offerta da questa pausa forzata per mettere in piedi una commissione che si occupi di una vera e propria riforma strutturale dello sport. Quando arriveranno i contributi dall’Europa, infine, si dovrà procedere ad una distribuzione intelligente senza avere l’unico fine di ripristinare la situazione precedente. Serve cambiare e per farlo c’è necessità di una forte volontà riformista da parte di tutti gli attori principali del mondo sportivo. Un obiettivo sicuramente sfidante ma perché non provarci davvero?