Valeria e Omar, ovvero “Travel Reflexes”, sono due ragazzi veronesi che nel novembre del 2019 hanno realizzato il loro progetto di partire per un lungo viaggio in giro per il Sud-Est asiatico, senza una data precisa di ritorno, ma seguendo la loro ispirazione del momento. Tutto bene, fino alla comparsa del famigerato Coronavirus. «L’idea di questo viaggio è nata principalmente da me – racconta Omar – già da dopo il diploma avevo iniziato a pensarci, ma poi ho trovato lavoro in un negozio e per forza di cose l’ho accantonata. Dopo undici anni di lavoro ho deciso che era ora di realizzare il mio progetto; nel frattempo Valeria, che lavorava in Francia, è rientrata in Italia e abbiamo iniziato a dare forma al viaggio, mettendo da parte un po’ di risparmi e facendo alcuni “viaggi di prova” a breve raggio tra cui il cammino di Santiago, il Portogallo, i Paesi Baltici. Io ero già stato in Perù, ma Valeria aveva solo viaggiato in Europa e volevamo fare una sorta di “rodaggio” prima di partire. Abbiamo scelto il Sud-Est asiatico per diverse ragioni: principalmente eravamo attratti dalla spiritualità di quei luoghi, dalla sicurezza e dal basso tasso di criminalità, e, non ultimo, dal costo della vita molto più economico!»

Dopo un anno di risparmi sono pronti. Zaino in spalla, e via in volo per Bangkok. Da lì, verso il nord della Thailandia e poi in Laos, dove Valeria viene messa ko da una tonsillite con 40 di febbre che poi passa a Omar. Dopo un travagliato viaggio di 10 ore con un pullman locale da Luang Prabang, i ragazzi arrivano a Vientiane, dove Omar ha finalmente la possibilità di riprendersi dalla febbre dei giorni precedenti. Prossima tappa: la Malesia. Ed ecco che, poco dopo metà gennaio, cominciano ad arrivare le prime notizie del famigerato Coronavirus. All’inizio la situazione non desta particolari preoccupazioni, poi i ragazzi notano che i malesi stanno iniziando a prendere precauzioni, a indossare più frequentemente le mascherine (anche se in Oriente è un’abitudine più diffusa che da noi, anche in condizioni normali); nei locali pubblici compaiono i flaconi di disinfettante, e vengono esposti opuscoli che invitano i clienti a lavarsi frequentemente le mani. Gli europei che Valeria e Omar incontrano nel corso del viaggio sembrano più lenti nel comprendere il pericolo rappresentato dal virus “è solo un’influenza”, commentano in molti, liquidando la precauzioni delle popolazioni locali come un’esagerazione.

Dopo un periodo nel sud della Thailandia, tornano nel nord per attraversare via terra l’unico confine aperto con il Myanmar. Qui acquistano una scheda SIM birmana, e il gestore telefonico invia periodici aggiornamenti via sms su eventuali contagi da coronavirus. La situazione qui sembra comunque tranquilla; ma si avverte in generale la sensazione che tutti i Paesi dell’area stiano progressivamente chiudendo i contatti con la Cina: ad esempio, si vedono montagne di angurie, che il Myanmar di solito esporta in grandi quantità verso la Cina, lasciate a marcire per strada. Intanto è fine febbraio e i nostri ardimentosi viaggiatori decidono di spostarsi in India per prendere parte al famoso Holi Festival, il festival del colori. L’India non rilascia più l’e-visa ai cittadini con passaporto italiano, ma recandosi personalmente al consolato indiano di Mandalay c’è ancora la possibilità di ottenerlo. Valeria e Omar trascorrono un’intera mattinata al consolato, rifacendo le fototessere – quelle che hanno portato non vanno bene, dice l’esasperante funzionario –, rispondendo a una serie interminabile di domande e compilando una montagna di scartoffie.

Dopo aver versato una sostanziosa tassa per l’espletamento delle pratiche burocratiche, i due vengono congedati con la rassicurazione che nel giro di due o tre giorni potranno tornare a ritirare i loro visti. Ma quando si ripresentano al consolato, con i loro biglietti aerei per l’India già pronti, si sentono rispondere che l’India nel frattempo ha deciso di non concedere più nessun tipo di visto a chi possiede passaporto italiano e non restituisce le quote versate. A nulla valgono le loro rimostranze, e ad allontanarli definitivamente dalla loro meta arriva la notizia da parte di amici  già in India che gli ostelli non accettano più ospiti italiani.

«A quel punto non ci restava che ritornare in Thailandia, che era l’unico Paese che ancora accettava gli italiani, abbiamo quindi deciso di andare a Pai, una località nel nord, per decidere se e come proseguire il viaggio, visto che stava diventando sempre più difficile riuscire a passare i confini con il nostro passaporto italiano. A Pai abbiamo affittato un bungalow meraviglioso, in un resort dove gli unici ospiti eravamo noi, un professore inglese e un cittadino thailandese. Per il resto era tutto chiuso, una sensazione surreale. Era chiaro che le chiusure avrebbero continuato ad aumentare e avremmo trovato sempre più difficoltà a trovare alloggi e locali aperti dove mangiare. Nel frattempo il Nepal, altra nostra possibile meta, aveva addirittura istituito il coprifuoco, e un avviso della Farnesina ci informava che tutti i passaporti europei stavano incontrando sempre maggiori difficoltà e blocchi alle frontiere. Il re della Thailandia aveva dichiarato lo stato di emergenza da un giorno all’altro, e la nostra paura era che chiudesse le province.»

A quel punto sarebbero rimasti bloccati a Pai senza riuscire a raggiungere Bangkok per prendere un eventuale volo per l’Italia organizzato dal Ministero degli Esteri ma con grande difficoltà hanno contattato l’ambasciata italiana di Bangkok «che ha iniziato un gioco di rimpalli con la Farnesina per scaricarsi a vicenda la “patata bollente” di farci rientrare in patria – continuano nel racconto – non riuscivamo a contattarli telefonicamente, via email non rispondevano, alla fine abbiamo contattato l’ambasciata via Facebook, senza ricevere un supporto reale. La Farnesina ci ha fornito ancora meno aiuto: ci rispondevano che “stavano lavorando per noi”, ma non ci davano nessuna informazione. Addirittura quando siamo riusciti a parlare con un funzionario del Ministero perchè eravamo preoccupati dall’eventualità che in Thailandia venissero chiuse le province bloccandoci a Pai, ci ha risposto che non ne sapeva nulla e ha aggiunto “dovevate pensarci prima”!

Per fortuna su Facebook abbiamo trovato un gruppo creato da altri italiani bloccati in Thailandia che si trovavano in una situazione analoga alla nostra, e ci tenevamo in contatto scambiandoci consigli e informazioni. Anche fra gli altri del gruppo regnava il caos: c’era grande confusione nelle informazioni, alcuni andavano in panico, altri cercavano di organizzarsi per affittare appartamenti e attendere che finisse l’epidemia. Insomma, nessuno sapeva quale fosse la cosa migliore da fare. Tra l’altro, sul “Bangkok Post” era uscito un articolo che addossava agli italiani a Phuket la colpa di aver diffuso l’epidemia in Thailandia; quindi ci vedevano come degli untori! All’infopoint dell’aeroporto siamo stati trattati come degli appestati, quando l’impiegata ha sentito che eravamo italiani ci ha mandato via in modo scortese e sbrigativo, dicendoci che per trovare un volo per l’Italia avremmo dovuto attendere che il Ministero degli Esteri organizzasse il nostro rimpatrio.»

Sempre più preoccupati si tengono in contatto tramite Whatsapp con gli altri italiani. Pare ci sia un volo con Aeroflot che arriva a Mosca, ma la tratta Mosca-Roma viene fatta senza passeggeri, solo per andare a prendere gli ultimi cittadini russi a Roma e riportarli in Russia. Alla fine ecco uno spiraglio di speranza, sempre grazie al gruppo scoprono di un volo Condor, del gruppo Lufthansa, che porta a Francoforte. Danno la precedenza ai cittadini tedeschi – due italiani che avevano prenotato sono stati lasciati a terra per fare posto a due tedeschi che si sono presentati all’ultimo minuto –, ma vale la pena di tentare anche perché non ci sono alternative. «Gli unici momenti di tutto il viaggio in cui ho avuto veramente paura di essere contagiato – ricorda Omar – sono stati sul volo verso la Germania e all’aeroporto di Francoforte. Sull’aereo eravamo seduti tutti vicini, senza rispettare le distanze di sicurezza; una coppia di anziani tedeschi vicini a noi avevano la mascherina, ma tenevano il naso scoperto, e quando tossivano spostavano la mascherina dalla bocca per non sporcarla… inoltre, nessuno del personale dell’aeroporto di Francoforte indossava i dispositivi di protezione individuale. Abbiamo trascorso la notte in aeroporto, senza poter ritirare i nostri zaini perché il personale sospettava che saremmo usciti per andarcene in giro per la città!»

Alla fine i due ragazzi riescono a raggiungere Verona. In questi giorni stanno completando il periodo di quarantena obbligatoria in un appartamento affittato con Airbnb, e in attesa di tornare a casa si dilettano fra puzzle e uova di Pasqua. «Purtroppo non avevamo scelta, siamo dovuti tornare perché ormai le restrizioni ci rendevano impossibile proseguire il viaggio ed eravamo anche preoccupati per le nostre famiglie, non c’era più la spensieratezza con cui eravamo partiti – ammettono – ma stiamo progettando di riprendere appena possibile il nostro viaggio da dove lo avevamo interrotto, e realizzare il sogno di andare a vedere l’Holi Festival.»

Le foto pubblicate a corredo dell’articolo sono di Omar Bonfante