Come i più acuti avranno osservato, nella consueta modalità a ondate della comunicazione, dopo i bulli che picchiano i ragazzi, dopo i ragazzi che picchiano i professori, dopo i professori che picchiano gli alunni – insomma, si mena che è un piacere – siamo entrati in una piccola mareggiata della comunicazione sulla scuola legata al suo presunto classismo.

Il caso è noto, ma non isolato: il comprensivo di Roma di Via Trionfale sul suo sito ha indicato nero su bianco che ogni plesso era caratterizzato da una specifica omogeneità di ceto. Secondo l’Ansa, una madre aveva già segnalato alla dirigente scolastica che «era una cosa ingiusta dividere gli alunni per ceto, ma lei (la Dirigente) non lo aveva rimosso, spiegando che non c’era alcun intento discriminatorio, bensì si stava adeguando a delle indicazioni ministeriali, che invitano la scuola a fornire una fotografia fedele della realtà, per adeguare i piani dell’offerta formativa».

La presentazione leggibile, fino a poco tempo fa, sul sito del comprensorio

A fronte di questo, la scuola italiana, quindi, è classista o no?
Proviamo a ragionarci. Le scuole recepiscono le attese delle famiglie che, nelle scelte per i loro figli, sono di per sé molto classiste. Immaginiamo un/una ragazzino/a che vada all’asilo, alle elementari o alle medie. La scelta la fanno i genitori, in ragione della prossimità della scuola (qualcuno ce lo deve pur portare, parliamo di giovani sotto i 14) e delle proprie disponibilità economiche e culturali (chi, per possibilità e tradizione, ha frequentato la scuola privata senza traumi, tenderà a fare questa scelta anche per i propri figli). I genitori pretendono un posto tranquillo, sicuro, pulito. E magari con un insegnamento di qualità. Questo vale altrettanto anche per le famiglie dei quartieri popolari che mandano i /le loro ragazzini/e al plesso più vicino, nel quartiere.

È un bene per l’integrazione culturale e sociale? Probabilmente no. Ma è comodo per le famiglie che ce li devono portare. A far scandalo nel caso di Roma è la presentazione scuola: ma se l’istituto si mostra così alla città, è perché ritiene che questo avrebbe attirato e agevolato le iscrizioni. Ecco il punto: con la riforma scolastica di Renzi le scuole si fanno concorrenza tra loro e, se il comprensorio di Via Trionfale ha scelto di dare questa immagine di sé, è evidentemente perché paga e piace. Gli studenti, pragmaticamente, sono cattedre, ovvero posti lavoro: e più l’istituto è grande e complesso, più il dirigente scolastico guadagna.

Smettiamola con l’ipocrisia: i genitori, a meno che non siano ideologicamente e convintamente orientati, tenderanno – se possibile – a evitare le scuole occhiello dell’integrazione, per il semplice fatto che, se una classe di bambini deve partire da zero, il giovane e coccolato virgulto, presumibilmente di madrelingua italiana, accumulerà un progressivo ritardo rispetto ad alunni di altre scuole. Le famiglie, poi, sanno benissimo, col passaparola, quali scuole funzionano e quali no, quali hanno una forte componente straniera e quali no, quali sono accoglienti coi disabili e quali no.

E, generalmente, scelgono altro perché sanno che l’integrazione ha un costo in termini di qualità di istruzione, dato che il livello di insegnamento si deve forzatamente allineare con gli alunni più in difficoltà per evitare la dispersione scolastica. Una visione certo egoistica, ma d’altronde ciascuno pensa al bene del proprio figlio nell’ottica del “ognun per sé e Dio per tutti”.

Le famiglie, inoltre, sono consapevoli della loro realtà e agiscono coerentemente di conseguenza a mano a mano che i figli crescono. Come appare da recenti statistiche, hanno un ruolo decisionale determinante per la scelta della scuola secondaria di secondo grado per i propri confusi e incerti figli quattordicenni, una scelta che per il futuro di molti di loro può essere determinante. E i genitori già ora sanno se potranno permettersi un giorno, l’università; sanno che un titolo di studio non garantisce più un lavoro e, men che meno, l’ascesa sociale in una società come quella italiana ingessata e con un ascensore sociale rotto da tempo.

E, d’altra parte, il background familiare e sociale (livello culturale dei genitori, familiarità coi libri in casa e con la cultura, amicizie di livello omogeneo) spinge di per sé a una selezione a monte, perché cercheranno naturalmente di collocarsi nell’ambito che meglio le rappresenta. Senza considerare, poi, che un percorso scolastico di alto livello è meno impegnativo, a parità di risorse intellettuali, per chi vive già in un ambiente stimolante. Eccoci perciò al dunque: la vita, non la scuola, è classista.

Questa storia, però, ha del buono. Per cominciare, restituisce un po’ di verità: le classi sociali non sono affatto sparite con la scomparsa dell’ideologia comunista e sono invece attive e condizionanti. In secondo luogo, ci pone di fronte a una scelta di campo: se l’integrazione tra diversità culturali e sociali è davvero un obiettivo condiviso, è dalla famiglia che bisogna partire prima ancora che dalla scuola, che fotografa solo l’esistente.

Negli anni Sessanta e Settanta si chiedeva alle studentesse universitarie di frequentare gli operai (o i loro figli) per svolgere un ruolo di integrazione, miglioramento intellettuale e indottrinamento ideologico. Possiamo chiedere lo stesso ai genitori?