A fine anno è sempre tempo di bilanci e il 2019 che ci lasciamo alle spalle sarà ricordato per avere dato i natali al miglior disco di Bruce Springsteen del secondo millennio. “Western Stars”, uscito in sordina a giugno, si è rivelato, infatti un piccolo tesoro di gemme preziose. Canzoni che raccontano storie dell’America di ieri e di oggi; fotografie emozionali degli anti eroi che hanno in Springsteen il testimonial per eccellenza.

È un album che acquista spessore se ascoltato per intero, già di per sé fatto molto raro in quest’epoca di ascolti distratti. C’è un filo logico tra i brani che lo rende quasi un concept e Bruce prende per mano il pubblico e lo trascina in questo mondo quasi cinematografico attraverso le sue storie, con arrangiamenti orchestrali barocchi, che omaggiano le colonne sonore degli epici western movies. Ed è talmente cinematografico l’effetto ottenuto da avere convinto il Boss e il produttore Ron Aniello a girare un documentario che proponesse tutto l’album suonato per intero dal vivo con un’orchestra. Il regista è lo stesso Springsteen, coadiuvato  da Thom Zimmy, già autore del documentario “The Promise: The Making of Darkness on the Edge of Town” e delle riprese dello spettacolo teatrale “Springsteen on Broadway”.

Il progetto è molto semplice: a 70 anni Bruce apre le porte del suo granaio nel New Jersey addobbato a festa e ospita l’orchestra di musicisti che lo affiancheranno per l’esecuzione per intero di Western Stars, oltre alla fedele moglie Patti Scialfa (chitarra e cori). Lo spettatore in sala viene abbagliato dal calore, dall’emozione palpabile del fortunato pubblico presente nel granaio, dalla formidabile empatia che Springsteen esercita con il solo sguardo fisso nel vuoto. La sua principale qualità di performer è senza dubbio l’intensità e chiunque abbia avuto la fortuna di vederlo dal vivo sa bene che tipo di rapporto il Boss sa instaurare con il suo pubblico. L’espressività della sua voce, dei suoi gesti rendono vere le storie che racconta, rendono reali le emozioni che trasmette senza filtro, mettendo la sua anima a servizio di chi lo ascolta.

Il film, quindi, è il concerto dell’album che probabilmente non sentiremo mai dal vivo in tour, intervallato dai racconti dell’autore sulla nascita delle canzoni. È un film ricco di  aneddoti che riguardano la sua storia personale, la sua ricerca continua di equilibrio nello scontro tra i suoi demoni e la serenità dell’età adulta, una faticosa battaglia che lo avvicina a chiunque la combatta.  Le riflessioni sono arricchite da una fotografia evocativa che ci trasporta nelle sterminate pianure, nei deserti californiani, da percorrere con le amate Chevrolet o con i suoi cavalli.

È un racconto sincero, una sorta di mappa delle cicatrici dell’autore che più di ogni altro ha parlato al cuore della sua generazione, ne ha raccontato i fallimenti e le rinascite, restando dentro alla storia, sporcandosi le mani e trascinando se stesso nei vortici che permettono ai grandi autori di scrivere grandi brani.

E questi sono 13 brani eccellenti, che nella versione cinematografica di Western Stars risplendono di nuova luce.  Resta tempo solo per il gran finale travolgente di “Rhinestone Cowboy” nel fienile, “un luogo spirituale, uno spazio pieno di fantasmi e di spiriti“. “Buon viaggio, pellegrino” è il saluto che scorre prima dei titoli di coda, che accompagnano le immagini di Bruce e Patti rimasti soli al bancone del bar.

Questo album e questo film sono due grandi regali al pubblico di un cantautore che non aveva più nulla di dimostrare, ma sollecitato dall’oscurità del presente ha estratto dal cilindro i suoi numeri migliori, le sue storie migliori, permettendo alla musica di arrivare dritta al cuore. E coloro che parlano solo di operazione meramente commerciale, con album e colonna sonora usciti a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, hanno perso di vista il fatto che la sostanza conta dannatamente più della forma.