Massimo Modesti è veronese, della Valle di Illasi, laureato in Scienze dell’educazione da sempre “cercatore di significati” con un’anima sensibile e volta verso il prossimo. Fine ricercatore per il quale Verona iniziava a stare stretta; si sposta a Milano per qualche anno dove fa esperienza di cooperazione e collaborazione su tematiche di “frontiera” e da qualche mese è in Nepal per una avventura che lo sta arricchendo come uomo e come professionista. La sua storia è un viaggio che ci fa riflettere anche su noi stessi.

Massimo se ti chiedo chi sei, cosa ci racconti?
«Sono sempre stato un sognatore disincantato, con un piede sulla terra e uno nel cielo. Dentro di me convivono due anime: quella del visionario e del creativo, e quella dello scienziato che cerca evidenze e dati affidabili. Se mi chiedi dove sono nato, anche se nei primi sei anni ho vissuto altrove, il paese natale per me resta Illasi, dove sono cresciuto e dove ho vissuto ininterrottamente fino ai 31 anni. Sento un’impronta forte e un legame importante con questo paesino di agricoltori e con la vallata in cui è immerso. Da lì, salendo per la strada provinciale, si vedono le Prealpi, un panorama che mi allarga il cuore e che mi ha sempre regalato tranquillità e pace interiore. Nonostante Illasi non si sia mai distinto per essere un paese culturalmente dinamico, ma una specie di antico feudo dominato da principi conservatori, sento un affetto profondo nei confronti dei luoghi della mia infanzia e adolescenza. Gli ambienti naturali, le contrade e le persone che hanno contribuito alla mia crescita sono un tenero ricordo.
La parrocchia è stato l’ambiente che prima di tutto mi ha formato nei vari aspetti della mia personalità e che mi ha dato la possibilità di esprimere i miei talenti artistici e sociali. È stato un laboratorio di creatività, molto più di quanto non lo fosse la scuola, dove rarissimi sono stati gli insegnanti che mi hanno dato ispirazione per i miei sogni e per la mia carriera. Nella parrocchia ho imparato a leggere e a recitare davanti a un pubblico (avevo 10 anni la prima volta), ad accompagnare con le tastiere il canto in chiesa e a dirigere un coro (dai 15 anni in poi), a organizzare attività per i bambini (dai 17 anni in poi), e a partecipare alla vita pubblica portando le mie idee e le mie iniziative (dai 21 in poi). Nulla di tutto questo mi è stato offerto a scuola, neppure nei gradi superiori.
A scuola potevo solo essere bravo nelle materie di studio; sentivo ignorate le mie qualità più importanti, eccezion fatta per il disegno e la filosofia. In parrocchia, invece, ho avuto la possibilità di attingere anche ad altre esperienze importanti che mi hanno ispirato: i racconti dei missionari e il commercio equo e solidale. La voglia di portare equità e giustizia nelle relazioni sociali e nell’economia è nata sicuramente dalla fede cristiana ed è stata resa visibile e concreta da queste esperienze che hanno orientato e che orientano anche oggi le mie scelte. Gli ambienti religiosi mi hanno aperto a esperienze con un respiro più ampio del territorio locale, mi hanno aiutato anche a vedere il mondo al di là del mio naso e della “mia cultura”.»

Cosa volevi fare da grande?
«Da bambino avevo una spiccata ammirazione per il mio padrino, uno zio medico, e probabilmente per questo motivo immaginavo di diventare dottore. Tuttavia, una volta adolescente, ho iniziato a sognare una carriera artistica, ma sono stato distolto dall’intenzione di frequentare una scuola con questa impronta. Gli insegnanti dicevano ai miei genitori che il liceo artistico non mi avrebbe offerto una formazione completa e seria, che non era un luogo appropriato per lo studio, ecc. Ho sempre avuto un’inclinazione per discipline artistiche: disegno, pittura, canto, e musica soprattutto, ma anche teatro. Durante gli anni della scuola superiore ho iniziato a scoprire una passione per le professioni sociali e psicologiche, un’esperienza di volontariato fra tutte ha dato una spinta verso questa carriera: una settimana al Piccolo Cottolengo di Sarmeola di Rubano.
Non era la prima esperienza educativa che facevo, ma sicuramente è stata quella determinante. Così ho finito per iscrivermi a Scienze dell’Educazione, anche per rimanere a Verona dove avrei frequentato il corso di strumenti a percussione al Conservatorio. Fin da bambino ho sempre studiato musica e, con il passare degli anni, ho avvertito il bisogno di passare a una formazione più importante. Le esperienze e le amicizie che ho stretto in quegli anni sono state memorabili. Ad esempio, suonare nell’orchestra mi ha dato grande soddisfazione e orgoglio. Gli studi universitari, d’altra parte, mi hanno dato l’occasione di appassionarmi alla ricerca scientifica e, come spesso accade, è stato un docente in particolare a ispirarmi e darmi modo di coltivare ed esercitare questa passione.»

Parco della Martesana all’imbrunire, a pochi passi da Via Padova dove Massimo vive quando è a Milano 

Il primo spostamento da Verona a Milano. Perché e per quali motivi?
«Da molti anni immaginavo di spostarmi e di vivere in un contesto culturalmente più dinamico, ma non ho mai avuto il coraggio di farlo. Per il mio tirocinio sono stato in Tanzania, durante il dottorato sono stato in Scozia, anche alcuni viaggi in Marocco e in Guatemala mi avevano dato l’occasione di immaginarmi altrove. Ho provato a candidarmi ad alcuni programmi postdottorato in Inghilterra, ma i miei tentativi sono falliti. Ho iniziato a sentire che per troppo tempo mi ero accontentato, mentre sapevo benissimo che le mie ambizioni erano alte. Però mi mancava una situazione che mi sfidasse e che mi mettesse con le spalle al muro per tirare fuori le mie potenzialità inespresse.
Spostarmi a Milano è stato un grande rischio perché non avevo un lavoro né alcuna condizione di stabilità. Avevo solamente stretto rapporti con persone che si occupavano di diritti LGBT e di seconde generazioni, due temi che mi stavano molto a cuore e che volevo continuare a coltivare. Verona aveva un po’ esaurito le sue carte con me, sentivo che era il momento di attingere altrove. Devo ammettere che non è stato per niente facile inserirmi nel mercato del lavoro milanese; per molto tempo ho fatto resistenza, poi ho dovuto accettare di fare un passo indietro e di ritornare a fare l’educatore.»

Con la consigliera comunale Sumaya Abdel Qader e il presidente di A.L.A. Milano Onlus al termine del convegno sul contrasto al cyber razzismo a Palazzo Marino, Milano (foto di Candy Carmona Vera)

Quali progetti hai seguito mentre eri a Milano? Cosa ti ha lasciato quella esperienza?
«La collaborazione più lunga che ho avuto è stata quella con A.L.A. Milano Onlus, una piccola organizzazione no-profit milanese con 23 anni di storia alle spalle. In qualità di coordinatore, mi sono occupato di prevenzione di comportamenti a rischio soprattutto nell’ambito dell’HIV con progetti rivolti a sex worker transgender e a giovani figli di immigrati. Ho elaborato e gestito anche progetti di contrasto ai discorsi d’odio online, di inclusione sociale e di sviluppo di comunità. Quello della prevenzione dell’HIV è un tema che mi stava e mi sta molto a cuore. Prima di questa collaborazione avevo avuto l’occasione di lavorare – sempre con approccio di outreach – con il CIG (Centro di Iniziativa Gay) Arcigay Milano in un progetto di ricerca sulla prevalenza dell’HIV nella popolazione MSM (maschi che fanno sesso con maschi) e sui comportamenti sessuali a rischio.
Si trattava di un progetto europeo che in Italia si concentrava su quattro località e che era stato completato solo a Milano. Purtroppo l’esperienza con A.L.A. si è conclusa per un problema di rinnovo dei finanziamenti. Quello che ho imparato durante quei tre anni è stato proprio il ruolo del Project Manager, e la capacità di giocarmi su vari fronti in modo creativo, scoprendo ad esempio una grande passione per la comunicazione e il marketing sociale.»

Differenze tra vivere a Verona e vivere a Milano?
«Ho lasciato Verona con un po’ di amarezza nel cuore, non vedevo spazi e opportunità per coltivare le mie ambizioni professionali, avevo la sensazione che Verona “non mi volesse più”. Chiaramente Verona non c’entrava, ma era una combinazione di fattori a creare un incastro ormai impossibile. Milano sembrava, invece, pieno di promesse; mi attirava il suo dinamismo, carico di opportunità di entrare in contatto con realtà lavorative e associative, una città internazionale che ospitava eventi importanti e, soprattutto, una città altamente multietnica. Eppure, al di là delle aspettative, ho dovuto presto accorgermi che Milano era una città difficile, con una competizione molto alta e, spesso, con condizioni retributive peggiori che a Verona. Le connessioni erano sicuramente molto facilitate, ma finivano per essere anche superficiali e passeggere. Mi ero attivato per portare le mie idee a certe cooperative e associazioni, avevo acquisito anche credito presso alcune di queste, ma i tempi di maturazione si sono rivelati più lunghi del previsto. Solo alcuni anni dopo, infatti, avrei raccolto i frutti di tutti questi contatti.
Ritornare a Verona mi mette in contatto con il mio passato, con memorie sia felici che tristi, con sfide e successi. Talvolta avverto troppa lentezza tornando nella mia città, tanto più se si tratta della provincia dove sono nato e cresciuto. Eppure da un po’ di tempo mi sono riconciliato con i miei luoghi d’origine e ho ripreso ad assaporarne gli aspetti più piacevoli, sicuramente un ritmo più umano e relazioni più rispettose. A Milano mi colpivano le persone che sostavano al centro di una corsia di supermercato senza spostarsi per lasciar passare altri clienti mentre in autobus, in metropolitana o per strada mi capitava spesso che qualcuno mi colpisse per errore senza chiedere scusa. Tutto questo non mi era mai accaduto a Verona. D’altra parte tornando a Verona notavo i negozianti immusoniti e severi, mentre a Milano ovunque si viene accolti con un sorriso. Milanesi più aperti e gioviali, veronesi più arcigni.
Milano mi ha sicuramente reso più povero dal punto di vista monetario, ma mi ha anche offerto una grande opportunità per crescere e diventare più maturo professionalmente e umanamente, e per pensare in grande. Ad esempio, mi ha permesso di fare scelte ambiziose come quella che mi ha portato, oggi, in Nepal.»

Con volontarie locali e internazionali dopo lo workshop condotto alla scuola di Okharpauwa, poco oltre la valle di Kathmandu

Nepal, dunque, dove esattamente e a fare cosa?
«Cerco di spiegarmi meglio: osservo e analizzo come vengono realizzati attività e progetti, individuo i bisogni formativi dello staff, elaboro e offro sessioni formative per sviluppare competenze nuove, ricerco bandi e opportunità di finanziamento ed elaboro delle proposte e contribuisco alla realizzazione di un sistema di raccolta dati per “misurare” i progressi fatti e la qualità del lavoro nei singoli progetti. Alcune di queste cose sono già in atto, altre sono solo pianificate. Forse un programma troppo ambizioso per 8 mesi. Vedremo. Il tutto viene fatto su mandato della direzione della ONG che ha individuato già questi bisogni quando ha pubblicato il posto per il quale mi sono candidato, non si tratta di un ruolo calato dall’alto, ma continuamente negoziato con lo staff che lavora nella ONG.»

Hai a che fare con problematiche delicate e con persone che hanno vite difficili?
«Per il tipo di ruolo che ricopro, mi rapporto principalmente con lo staff dell’organizzazione: sia quello manageriale sia quello esecutivo, che sono composti entrambi da personale nepalese. Sin dall’inizio, mi sono trovato molto bene con loro, l’ufficio è un ambiente molto accogliente e le relazioni sono molto rilassate. Invece, in poche occasioni mi è capitato di avere a che fare con i cosiddetti “beneficiari” dei progetti, questo mi priva di una parte di esperienza sicuramente molto motivante, ma d’altra parte ciascuno ha il proprio ruolo e i propri compiti da svolgere. A dire la verità non vedevo l’ora di poter far visita alle località dove V.I.N. lavora, ma ho dovuto aspettare a lungo prima di poterlo fare; il mio primo mese e mezzo l’ho passato tra ufficio, festività e purtroppo anche una malattia (sono stato in ospedale per cinque giorni). A metà ottobre, nell’ambito di una campagna di sensibilizzazione sulla parità di genere e di prevenzione delle molestie sessuali rivolta ad adolescenti di due scuole superiori, ho avuto modo di partecipare sia alla preparazione sia alla realizzazione dei laboratori a scuola. È stata un’esperienza molto importante di contatto sia con gli studenti sia con gli insegnanti in due contesti sociali molto diversi, anche se collocati nello stesso territorio. Un’occasione per apprendere come avvengono alcuni processi e per proporre delle riflessioni e dei cambiamenti sul “come fare meglio” le cose che quotidianamente si fanno. Le situazioni difficili ci sono e stanno soprattutto nelle condizioni di vita delle persone nelle aree rurali: personalmente non ho modo di toccare con mano quelle problematiche che conosco solo dai documenti e dai racconti dei colleghi.»

Durante il workshop sulla parità di genere e la prevenzione delle molestie sessuali realizzato in una scuola superiore a Okharpawua, poco fuori la valle di Kathmandu (foto di Michaela Rossmann)

Cosa stai imparando da questa esperienza?
«Dal punto di vista personale, sto imparando ad avere pazienza. Durante i viaggi che ho effettuato nelle Filippine tra il 2016 e il 2018 ho già vissuto esperienze che hanno messo alla prova la mia pazienza. Si trattava soprattutto di appuntamenti ritardati o annullati all’ultimo minuto, e di lunghe attese senza apparente motivo. Se vogliamo, anche in ambito lavorativo ho dovuto pazientare. Dato il mio background antropologico, sono sempre molto incline a mettermi subito in relazione con i contesti sociali, mentre qui mi è stato chiesto di partire prima dai documenti per poi arrivare alla realtà.

Incensi e candele offerti in un tempio Hindu.

Raccontaci qualcosa della vita lì e della società e cultura nepalese.
«Ho scelto di presentare una candidatura per il Nepal per due motivi principali: amo la montagna e si tratta di un Paese che ha decriminalizzato le relazioni fra persone dello stesso sesso. Non avevo mai considerato destinazioni nell’Asia del Sud; tanto per dire, l’anno scorso ho ricevuto una proposta di lavoro in Bangladesh che, per vari motivi, ho rifiutato. Ho sempre desiderato andare a lavorare nelle Filippine e nel Sud-Est asiatico. Quindi la scelta di venire qui è stata un po’ una prova. Sono stato preparato accuratamente per questa esperienza, ma solo al mio arrivo mi sono reso conto di cosa significava vivere nella capitale. Kathmandu non è più il posto che romanticamente ricordano gli hippy degli anni ’70, e non è più neppure quella che era fino a venti anni fa. La guerra civile, l’instabilità politica, l’inurbamento massiccio e, per ultimo, il terribile terremoto del 2015, hanno reso Kathmandu un luogo non esattamente ospitale e salutare.

Quando sono arrivato, nel tratto di strada tra l’aeroporto e il nord-est dove tuttora vivo, ho esclamato dentro di me: quanto è brutta questa città! Ero abituato a dimensioni molto più grandi e al traffico di Manila, ma in questo ultimo caso riuscivo a vedere la bellezza dei quartieri popolari, un certo ordine nello sviluppo urbanistico, e lo sviluppo di nuove attività commerciali. Qui mi sembrava tutto uguale, ricoperto dalla polvere che sollevano i mezzi di trasporto e che inesorabilmente ritrovi ovunque. Quindi, raccontare qualcosa del Nepal per me significa anzitutto dire qualcosa della vita nella capitale perché non ho avuto molto tempo per allontanarmi da qui e visitare altri luoghi. Peraltro viaggiare via terra qui è veramente un’esperienza poco piacevole perché molte strade non sono asfaltate e sono segnate da veri e propri crateri. Per questo si finisce per impiegare, ad esempio, 7 ore per percorrere in autobus 200 chilometri.

L’adattamento a tutto questo, allo smog, al traffico senza regole, alla polvere che si solleva ovunque, ai marciapiedi e alle strade pieni di buche, è stata una vera sfida alla mia pazienza.  A me piace camminare per lunghi tratti in città. Milano, pur essendo una metropoli, offre anche molti parchi e aree verdi dove poter prendere un po’ di respiro dalla frenesia cittadina. Qui tutto questo manca. Dopo qualche settimana, armato di mascherina anti-smog e di coraggio, ho iniziato a circolare a piedi osservando le cose più curiose e simpatiche, come le mucche che felicemente pascolavano tra il traffico impazzito o se ne stavano accoccolate a terra lungo i marciapiedi. E ho in programma qualche weekend poco fuori città, dove c’è un ambiente naturale decisamente più sano e più rilassato.

Il Nepal è un Paese multietnico e la varietà culturale e somatica della sua popolazione è veramente molto ampia. Questo lo rende sicuramente molto affascinante, soprattutto per chi come me apprezza la bellezza e, in particolare, la bellezza maschile. Le persone sono in generale molto accoglienti e hanno un buon spirito di umorismo. Questo facilita molto la connessione tra estranei. Il Nepal è al tempo stesso un Paese antico e un Paese giovane, con grandi potenzialità di sviluppo e di innovazione. Le sfide sono molte, per la popolazione, per le imprese e per la politica, e non sarà facile affrontarle. Tuttavia credo che nel giro di vent’anni molte cose miglioreranno qui.

Ho speso molte parole per raccontare la parte più difficile del mio adattamento qui, vorrei poter essere giusto con il Nepal e i nepalesi e poter raccontare qualcosa delle potenzialità che vedo, soprattutto nei giovani. Credo che internet e i social media abbiano dato una grande spinta al cambiamento e all’apprendimento, si vedono differenze abissali tra le generazioni in termini di consapevolezza delle sfide presenti e future, soprattutto in chi ha avuto accesso ai gradi scolastici superiori. Kathmandu è una città dove c’è molta musica dal vivo, e dove c’è addirittura un conservatorio di jazz. Thamel, che è diventato anche il quartiere per eccellenza dei turisti, è frequentato anche da molti giovani nepalesi e ha anche un bar LGBTQ friendly, il “Pink Tiffany”, un ambiente piccolo, ma molto carino, gestito da un’attivista transgender.»

Pro e contro di quello che stai facendo.
«Anche se 8 mesi all’inizio mi sembravano lunghi, credo che un limite di questa esperienza sia rappresentato proprio dai tempi a disposizione: troppo brevi. D’altra parte si tratta di un problema legato al visto che non è garantito per i volontari internazionali, i quali devono accontentarsi del visto turistico, con validità massima di 150 giorni all’anno. La lista dei pro è lunga, ma sicuramente una fra tutte mi sento di citare: questo programma di volontariato europeo è un’occasione d’oro per mettersi alla prova in un contesto di cooperazione internazionale, e per apprendere competenze nuove. L’ufficio della Commissione Europea dedicato all’aiuto umanitario, dopo una selezione dei candidati effettuata dalle singole ONG titolari dei progetti, offre un corso intensivo di minimo dieci giorni cui seguono una formazione realizzata sia dalla ONG inviante sia da quella ospitante all’arrivo nel Paese. Il programma purtroppo sta per essere aggiornato – e probabilmente avrà un limite di età che ora non ha – e non permetterà più a professionisti senior come me di fare questa esperienza.»

Consigli a chi vuole lasciare la città di nascita e provare esperienze fuori dalle mura?
«Non sono molto incline a dare consigli. Penso che spesso i consigli siano fatti per essere ignorati in quanto ciascuno deve generare da se stesso una strada a lui/lei adatta grazie a un percorso di consapevolezza. Che sia con un lavoro o senza lavoro, spostarsi è comunque un rischio. Viaggiando con BlaBlaCar, ho sentito storie di persone che si sono spostate unicamente per lavoro e che non sopportano Milano, ad esempio. Per me è stato importante desiderare di vivere in un posto nuovo, anche se poi mi ha deluso in alcuni aspetti o ne ho riconosciuto piano piano i difetti. Spostarmi è stata sicuramente un’esperienza formativa. Sono decisamente cresciuto umanamente e professionalmente. Oggi sono un’altra persona, con un livello di consapevolezza più elevato di me stesso e di quello che desidero dalla vita. Credo che nello spostarsi sia importante avere il coraggio di lasciarsi sfidare in questo senso, altrimenti si finisce per sopportare un luogo o subirlo.»

Cosa farai alla fine di questo lavoro, progetti futuri?
«La mia intenzione è di continuare a lavorare nella cooperazione internazionale, possibilmente in Asia o in Africa. Non escludo tuttavia di potermi dedicare anche a piccole attività profit e di contribuire allo sviluppo di imprese locali e allo scambio commerciale tra Europa e Nepal. Il periodo che sto trascorrendo qui mi servirà anche a capire quali sono i settori che potrebbero generare processi virtuosi in questo senso. Mi piacerebbe molto far interagire il mondo del profit e del non-profit per il Nepal, magari in modo innovativo e sperimentale, fuori da logiche moralistiche e ideologiche. Quando si pensa al profit si pensa ai soldi che potrebbero finanziare attività non-profit, meno alle competenze tecniche che potrebbe portare, al miglioramento che potrebbe generare in termini di organizzazione di impresa e di qualità dei prodotti nati per creare sviluppo in determinati territori. Questo non fa parte del mio retroterra che è soprattutto educativo e sociale, ma da quando lavoro per V.I.N. quest’area di competenze mi sta appassionando molto. Perché qui c’è soprattutto bisogno di promuovere il lavoro, un lavoro dignitoso, tecnicamente alla portata del contesto in cui nasce, potenzialmente in grado di trattenere i giovani dall’emigrazione e di offrire opportunità alle donne di rendersi indipendenti e autonome in termini monetari.»

Tornerai in Italia? Se si, dove a Verona, Milano o altrove?
«Sicuramente al mio rientro mi stabilirò a Milano nel mio monolocale dove ritroverò tutti i miei oggetti più cari, compresi vari strumenti musicali. Ritornerò di sicuro in Italia, ma vorrei farlo con una prospettiva chiara dal punto di vista professionale, che vorrei fosse in un Paese asiatico. Forse il Nepal? Non lo posso dire ancora, ma l’obiettivo di questa esperienza è anche costruire delle piste nuove. Sono molto legato alle Filippine dove mi piacerebbe vivere e lavorare, ma lì – per quanto riguarda la cooperazione internazionale – il mercato del lavoro è di difficile accesso e decisamente non molto promettente da quando è in carica Duterte. In Italia continuo a mantenere delle piccole collaborazioni, ma vorrei farlo più in termini di completamento di qualcosa che è maturato pian piano e non sono ancora riuscito a completare che come avvio di nuove imprese. Più di un anno fa ho deciso di spostarmi sul terreno della cooperazione internazionale inseguendo sia un sogno, che ho sempre avuto, sia un miglioramento della mia retribuzione. Purtroppo il settore del lavoro sociale in Italia è mal pagato e soprattutto non dà prospettive né di crescita professionale né di carriera. Mi dispiace essere così tranchant, ma la mia esperienza mi ha portato a vedere due situazioni opposte: lavoro stabile e continuativo, ma pagato poco e poco motivante e creativo da una parte; lavoro in contesti creativi e motivanti, ma poco stabile e soggetto ad alti e bassi dall’altra.»

La Valle delle Sfingi a Camposilvano, una simbolo della Lessinia orientale

Di Verona, infine, cosa ti manca?
«Anzitutto la Lessinia. Per il mio compleanno quest’anno ho voluto andare a Camposilvano con mio padre, mia sorella e i miei nipoti a fare una passeggiata e un picnic. Quando penso ai luoghi del cuore, penso soprattutto alle Prealpi cui si ha facilmente accesso sia dalla città sia da Illasi con poche decine di minuti di viaggio. Io ho vissuto un anno a Velo Veronese e questo mi ha fatto capire sia le sfide di essere da solo in montagna sia mi ha legato ancora di più allo spirito di questi luoghi. In secondo luogo, mi mancano le amicizie che ho stretto nel corso di tanti anni, l’intimità e la familiarità con persone che mi conoscono molto bene e con le quali ho condiviso momenti felici e momenti difficili. Prima di partire per il Nepal ho voluto rivedere questi amici e amiche che per molto tempo – concentrato come ero a mettere radici a Milano – ho anche un po’ trascurato.»

E, invece, cosa non ti manca assolutamente?
«Non mi manca la mentalità provinciale con la quale mi sono dovuto confrontare per una vita: l’invidia, il sospetto, e il giudizio che sento molto pesanti soprattutto nel contesto dei paesini dove il controllo sociale è molto più alto. La cattiva abitudine di giudicare le ambizioni e l’entusiasmo di chi vuole tentare una strada nuova considerandolo come qualcuno che “vuole darsi delle arie”. Non mi manca l’atteggiamento di chi non vuole cambiare perché tanto a Verona si vive di rendita: c’è l’Arena, c’è il balcone di Giulietta e l’opera lirica che fanno cassa. E se non fanno cassa ci si lamenta che i turisti sono pochi e non comprano. Pochissimi pensano a fare qualcosa di innovativo.»