Ottomiladuecento chilometri e passa separano, in linea d’aria, Italia e Florida. Certe distanze, però, è difficile quantificarle in maniera esatta. E non perché qui si ragiona in metri e dall’altra parte dell’Atlantico in piedi, no. Ma perché nelle stesse ore in cui da noi si discuteva sul modulo che adotterà Pirlo alla Juve, gli States si sono ritrovati a contemplare un campo vuoto. Non era mai successo.

Teniamola a mente quest’immagine, perché a suo modo è storia. L’NBA, la lega sportiva più famosa ed esposta al mondo, ferma i playoff in corso nella bolla di Orlando. Le squadre hanno scelto di non giocare, il motivo era nell’aria, dare un segnale forte dopo la deflagrazione del caso Jacob Blake. A ruota, stanno seguendo il loro esempio pure gli atleti di altre discipline.

Nel weekend le gare dell’NBA dovrebbero riprendere. Lo stop alla fine è durato un paio di giorni, ma fidatevi, in un sistema così legato alle regole dell’entertainment televisivo e dei suoi spazi pubblicitari, non sono assolutamente pochi.

Non voglio entrare nel merito deontologico della questione, che tra l’altro avevo già in parte affrontato in questo articolo. Vi risparmio quindi il pippone moralista, anche perché il tema del razzismo nella società americana e le mille contraddizioni che stanno dietro al movimento Black Lives Matter e alle proteste di atleti iperpagati meriterebbero un intero trattato.

Mi limito a registrare un fatto e a pormi una domanda:

il mondo dello sport può ancora essere una leva che innesca movimenti storico-culturali. I suoi protagonisti sono ancora in grado di incidere sul dibattito pubblico, anche alzandone il livello. Quand’è che in Italia abbiamo perso di vista questo legame?

Un esempio per chiarire meglio: Jaylen Brown è una delle giovani stelle dei Boston Celtics, non ha ancora 24 anni ed è una di quelle figure che sembrano davvero emanare un’aura speciale. Nei giorni successivi alla morte di George Floyd ha organizzato le proteste attraverso i social media e ha guidato una manifestazione pacifica per le strade di Atlanta.

Jaylen Brown, foto facebook Boston Celtics

Già nelle precedenti stagioni il ragazzo aveva fatto sentire la sua voce, parlando sia al MIT che a Harvard in merito alle disuguaglianze create dal sistema scolastico, e rilasciando un’intervista di altissimo livello al “Guardian”. Dall’anno scorso è il più giovane vicepresidente dell’associazione giocatori di sempre.

Ora, che personaggi come Brown siano una rarità a ogni latitudine, siamo tutti d’accordo. Ma è lecito chiedersi perché sia così difficile trovare un esempio nello sport italiano che possa essere almeno una via di mezzo tra l’esterno di Boston e le biografie patinate scritte da giornalisti compiacenti e compiaciuti.

Dobbiamo davvero rassegnarci ad atleti che si limitano alle foto sui social, alle magliette con gli slogan e ai lacci delle scarpe colorati? Sì, lo so, voi mi direte che quello è anche il livello del dibattito politico italiano, ma questa è un’altra storia, e io vorrei fare un ragionamento un attimo più profondo rispetto alla pur gradita proposta estiva degli imbolsiti Vieri, Adani e Ventola in Una vita da Bomber.

Quale valore vogliamo dare allo sport all’interno della nostra società? Nel rispondere a questa domanda, che già richiama risposte scontate, ci si rende conto del doppio cortocircuito creatosi in Italia.

Il primo è un cortocircuito storico-sociale. Sono d’accordo con Luca Pisapia che, nel suo libro Uccidi Paul Breitner, ragiona su come, dal Dopoguerra a oggi, gli strati “intellettuali” della società e della politica italiana non abbiano colto l’attimo «per entrare all’interno dei meccanismi di quella che era già la più importante industria culturale del paese, il pallone, destinata a soppiantare il cinema per facilità di produzione e consumo».

Il calcio, ma anche lo sport in genere, è declassato a gretto passatempo del popolo bue. Col risultato di estrometterlo dal dibattito, ostaggio di estremismi e delinquenza che, dagli spalti, si sono poi intrufolati fin dentro le società.

Astutillo Malgioglio

In un tale sottobosco, sono finiti ostracizzati personaggi militanti come Paolo Sollier, il comunista che regalava libri ai compagni di squadra, e ne ha pure scritto uno niente male. Oppure Astutillo Malgioglio, il portiere che per tutta la sua carriera si è speso a favore dei ragazzi affetti da disabilità, fisica e psicologica. «Quello pensa agli handicappati (sic!) anziché parare», il commento di un suo allenatore.

Nella seconda metà degli anni Ottanta, poi, l’ascesa di Berlusconi viene legittimata anche dalle vittorie di un Milan stellare. La narrazione scintillante e moralmente disimpegnata propinata dalle sue tv crea quella figura di sportivo-tronista patinato che ancora ci portiamo dietro. Un modello dove le uniche eccezioni sono gli sterili battibecchi che nascono attorno a sportivi di destra o di sinistra. Anche questi, però, dal sapore preconfezionato.

Il secondo cortocircuito è invece culturale. Non esiste palestra, scuola calcio o campetto di periferia in cui non ci si riempia la bocca col “valore educativo dello sport”. Tutto giusto, sacrosanto, peccato che quel valore finisca poi per appiattirsi al semplice rispetto delle regole di civile convivenza tra individui. Che, finché parliamo con dei dodicenni, può pure andare bene. Ma se cominciamo a ragionare con adolescenti e adulti, allora dobbiamo accettare come una naturale progressione che tale processo sfoci nel dibattito, nel confronto di idee e nella creazione di nuove esperienze, che rispondano alle sollecitazioni del mondo e della società in cui viviamo.

È uno scenario possibile anche da noi? Non nell’immediato. Prima c’è da fare una vera e propria rivoluzione culturale nella classe dirigente, nelle famiglie e nelle istituzioni. Non dico per arrivare a essere come gli Stati Uniti, un paragone troppo enorme per noi, ma almeno per non vedere più le nostre palestre scolastiche che cadono a pezzi e i ragazzi che fanno le ore di “ginnastica” con addosso i jeans. Se sport e scuola non fanno parte della stessa filastrocca, hai voglia a sperare in giovani virgulti col prurito e il coraggio di dire la loro. Anche quando la tua posizione tutto sommato l’hai raggiunta, e quindi, chi te lo fa fare di impelagarti in certe storie.

Se non si è capito, sogno un futuro dove uno sportivo professionista non si limiti ai canonici tweet pre e post partita, coi messaggi già scritti dagli uffici stampa. Voglio uomini e donne senza la paura di prendere una posizione. Gente come James McClean, col Bogside nel cuore, che si rifiuta di rendere omaggio ai militari inglesi mentre in campo suona l’inno inglese e sventola l’Union Jack.

Il calciatore Deniz Naki, durante una
manifestazione in sostegno al popolo
Rojava

Come Deniz Naki, attaccante tedesco di origini curde, a cui nel 2018 spararono addosso, che viene squalificato a vita per aver sostenuto la lotta per il riconoscimento del popolo curdo, senza risparmiare critiche e attacchi al governo di Erdogan. Non mi aspetto nuovi Carlos Caszely, che vanno in tv con la madre torturata per parlare ai cileni contro il regime di Pinochet. Questo sarebbe francamente chiedere troppo. Però, tra mafia, corruzione, disuguaglianza sociale e ignoranza dilagante, direi che di motivi per schierarci ce ne sarebbero.

Perché «lasciamo fuori la politica dallo sport» è una delle frasi più inutili della storia. Lo sport è politica, rappresentazione umana, teatro. Sono masse che si muovono, sudano e imprecano, in grado di incidere sul futuro della società. Sport e politica sono umanità. Chi dice il contrario, probabilmente ha capito poco di tutte e tre le cose.