Già da tempo il primo governo eletto #dallaggente della storia della Repubblica Italiana è squassato da un estenuante “stop and go” che sembra preludere a una crisi di governo che viene perennemente evocata e puntualmente rinviata. Da più parti si era pensato che le scorse elezioni europee, marchiate da una vigorosa affermazione della Lega sovranista, potessero essere una sorta di redde rationem per il governo eletto dal popolo e che Salvini potesse passare all’incasso dell’importante patrimonio di consenso accumulato, buttando all’aria il tavolo e andando a  elezioni anticipate per governare da solo senza l’alleato “gentesco”. Invece, nonostante tutte le minacce, il fantasma della crisi di governo non si è ancora materializzato e, a opinione di chi scrive, nemmeno si materializzerà. L’estenuante “stop and go” da parte di Salvini anzi è sintomo di debolezza piuttosto che di forza.

Perché, dunque, privarsi di un così comodo materasso che funge da cassa di compensazione di tutte le promesse mancate fatte dal Capitano? Perché mai doversi impegnare in logoranti battaglie per l’autonomia scolastica delle regioni del nord quando si può bravamente fare il bullo con le ONG nel Mediterraneo? Dando la colpa di tutto ciò che non funziona (cioè… tutto!) a  Giggino e lasciando la povera Ministra delegata all’autonomia con lo sguardo venereo a sbattere la testa contro il muro di gomma grillino e il buon Zaia a fare una battaglia di testimonianza sul territorio con la carogna appollaiata sulla spalla rappresentata dalla memoria della fine che hanno fatto tutti quelli che hanno rotto con la Lega. Ultimo in ordine di tempo Flavio Tosi, passato dal livello “leader nazionale putativo” a quello di “consigliere comunale di  minoranza di una città di provincia” senza fermate intermedie.

Il Ministro dell’Interno Salvini

E il motivo è assai semplice. A Verona c’è un detto che suona più o meno così: “se i ghe taja la lengoa, nol gussa più” che viene affibbiato a fanfaroni che fanno affermazioni clamorose mai supportate da fatti concreti. Il giovanotto Salvini si trova esattamente in questa situazione. Alle sue fanfaronate sono seguiti fatti concreti pari a zero. Se andare a elezioni per mirare a un governo monocolore della sola Lega o al più con il supporto del brand di nicchia dei nostalgici della destra missina, ovverosia “Fardelli d’Italia”, dovrebbe entrare nell’ordine di idee che avrebbe si tutti gli onori derivanti dall’essere un uomo solo al comando, ma pure tutti gli oneri. Tradotto: non potrebbe più scaricare le colpe della sostanziale inefficacia del primo governo eletto dallaggente d’Italia sul buffo alleato di governo M5S come fa ora. Giggino di Majo e il movimento di cui è il capo politico sono infatti gli sparring partner che tutti sognerebbero di avere. La loro incapacità è tale che possono  essere incolpati praticamente di tutto, dallo stop all’autonomia a quello dei cantieri, alla strage dei pinguini nell’artico.

Il Ministro delle Infrastrutture Toninelli

La loro essenza è perfettamente rappresentata dall’espressione del Ministro delle Infrastrutture Toninelli. Toglierli (politicamente) di mezzo, significherebbe non avere più alibi e cominciare a spiegare alle proprie groupie perché le accise non sono state tagliate. O perché Veneto e Lombardia non sono ancora autonomi. Un antico adagio che risale all’epoca della Serenissima recita così: “Se i voti a Scampia vuoi pigliare al Veneto l’autonomia non devi dare”. È lapalissiano che ogni proposito di autonomia per il nord si scontra senza possibilità di compromesso con una strategia politica mirante a raccogliere consensi su tutto lo Stivale con un programma nazionalsovranista. Ma Salvini non può ammetterlo senza sconfessare la storia stessa della Lega. Meglio dar la colpa del sostanziale insabbiamento delle istanze autonomiste al Movimento 5 Stelle che piglia 2/3 dei suoi voti da Roma in giù.

Flavio Tosi

Salvini, paradossalmente, si trova nella medesima situazione nella quale si trovava l’ex arcinemico Tosi. Come l’ex sindaco di Verona dilapidò la sua fortuna politica in una serie di prove di forza da ciascuna delle quali uscì sempre più debole politicamente – prima nella battaglia per le candidature alle elezioni regionali del Veneto poi nella guerra persa in partenza per il seggio di sindaco di Verona – così Salvini, infatti, ha puntato la sua macchina del consenso sullo scontro con la UE, vista come nemico politico. Ma fino a ora dallo scontro con questa ne è sempre uscito umiliato. Ha perso la prima battaglia sui “numerini” della finanziaria 2018, dovendo ricorrere al patetico escamotage di facciata del deficit al 2,04 % al posto del 2,4%. Ha perso la battaglia per il polo europeo sovranista, anche e soprattutto a causa dei suoi alleati putativi, tipo Orban, che lo hanno blandito per usarlo come leva nella trattativa con il gruppo del PPE, salvo poi scaricarlo di brutto dopo aver ottenuto ciò che volevano, come si fa con un cane quando si parte per le vacanze e non si vogliono rotture. In tutto ciò, dopo l’annuncio di Conte del via libera della TAV (al quale non a caso è seguito il sostanziale insabbiamento dell’insabbiamento dell’insabbiamento del processo di autonomia del Nord), quale potrà essere il ruolo dell’altro partner del governo dellaggente? Ormai M5S  è più noto per le sue retromarce che per le sue avanzate.

Luigi Di Maio

Dopo aver dovuto incassare una serie di solenni ceffoni, dal TAP (nonostante il Dhibba in campagna elettorale avesse sostenuto che con loro al governo non si sarebbe mai fatto),  alla TAV (eh vabbè), passando per il “mandato 0” e il sostanziale fallimento del suo fiore all’occhiello, ovverosia il reddito di cittadinanza, M5S potrebbe percorrere la strategia di diventare il brand politico di riferimento delle regioni centro-meridionali. Una sorta di “Lega Sud”, che di fatto sancirebbe la collocazione geopolitica del movimento nella penisola Italiana.

Sarebbe una strategia politica intelligente, se non fosse che il capo del movimento è Luigi Di Maio.