Savanna, dove balla la vita, a poco più di un mese dalla pubblicazione si posiziona primo tra i thriller storici su Amazon. Fin dall’esordio di Shasmahal nel 2013, il capitolo numero uno della fortunata serie “Le Rotte di Madhat”, le opere di Vito Franchini sono ai vertici delle classifiche di vendita e gradimento nei romanzi storici e di avventura. Un successo niente affatto scontato né facile per il nostro concittadino. Il momento storico descritto, il XVIII secolo, è cruciale per molte delle situazioni che fanno da sfondo alle avventure raccontate: la colonizzazione, il dominio del mare inglese, il pregiudizio razziale, la schiavitù. E i temi di ieri, narrati sapientemente, ritornano prepotentemente nella cronaca quotidiana nella forma del viaggio, della fuga, del desiderio di riscatto, della libertà.

Vito, data l’attendibilità storica dei riferimenti storici, verrebbe da pensare che tu sia un topo da biblioteca, o comunque uno scrittore professionista.

«Nego tutto. I riferimenti storici nei miei scritti sono rigorosi e, quando studio per ambientare le trame, in effetti, catalizzo tutta la mia attenzione sugli argomenti scelti. Mi ci metto una tale foga che alla fine di tutto il processo mi ritrovo a essere, negli specifici ambiti, qualcosa di paragonabile a un esperto. Per fortuna un lavoro vero ce l’ho, ed è anche particolarmente impegnativo. Di fatto dedico i ritagli di tempo alla scrittura, che mi dà grande gioia. Mi impegna la mente, mi stimola, mi rigenera, è addirittura terapeutica per certi versi. Nulla di paragonabile allo sforzo intellettuale necessario a passare un esame o laurearsi: in quei casi alla fine tiri un sospiro di sollievo. Quando io pubblico un libro, al contrario, soffro perché è finita e per un po’ sarò costretto a cercare sollievo altrove. La creazione è ricreazione, per me.»

Da cosa nasce questo bisogno di mettere nero su bianco i tuoi pensieri e che ti ha portato a scrivere oltre a romanzi d’avventura anche Who Was The Beatles Leader?, un libro sulla storia dei Fab Four di Liverpool?

«Tempo fa una psicologa incontrata durante una selezione ha inteso approfondire questa mia passione, allora ancora acerba. Mi ha aiutato a delineare i contorni di un dono che hanno pochi: se io ho un’idea, un pensiero, una volta messi per iscritto questi assumono forme più intriganti. In poche parole, a me piace rileggermi, mi sorprendo ancora di come le mie dita, battendo su una tastiera, siano in grado di dare forma concreta a ciò che perturba la mia mente. Assodato questo, mi ha incitato a investirci, anche solo come intrattenimento personale, non necessariamente per gli altri. Di conseguenza ho deciso di scrivere di ciò che più mi stimola: Africa, vele, la natura selvaggia e, naturalmente, i Beatles, la mia più ostinata passione.»

Perché hai scelto uno scenario primordiale, fin dal primo volume Shasmahal, nei tuoi libri?

«Ci sono senza dubbio dei motivi reconditi, ma voglio essere onesto e, per una volta, breve. L’utopia di Shasmahal mi è venuta in sogno, tutto il resto è una conseguenza di quel riflesso involontario della mia mente. Per i miei trascorsi di vita l’ho ambientata in Africa, non poteva essere altrimenti. Vista la mia passione per i velieri l’ho collocata nel XVIII secolo, quando la navigazione, grazie alla tecnologia marinara, ha iniziato a superare limiti secolari. A quel punto ho iniziato a studiare cosa fosse accaduto in quei tempi nel mondo allora conosciuto, ed eccoci qui.»

               
Sono tempi, questi, di dittatura del presente, mentre il tuo romanzo ci impone, pur nella libertà della finzione narrativa, la verità storica sulle ragioni del pregiudizio. È una scelta dettata da quali motivi?

«La “tratta degli schiavi” la studiamo a scuola, distrattamente. È un fatto storico come tanti altri, trattato spesso con superficialità per una chiara scelta strategica, dato che getta ombre corpose sull’occidente moderno, che noi siamo portati a ritenere una grande civiltà a prescindere. Visitare il museo degli schiavi a Liverpool mi ha scioccato e, come spesso mi succede, mi ha portato a impormi di approfondire la questione. Invito tutti a farlo: basta poco e, lo garantisco, vi unirete alle mie risate quando sentirete qualcuno parlare di razzismo ma, attenzione, anche di antirazzismo. Pontificare sulle questioni di moderno dibattito politico, senza avere un’idea concreta di ciò che c’è proprio dietro alle nostre spalle è un po’ come tenere conferenze di scienza medica avendo letto il bugiardino dell’aspirina. La cosa drammatica è che lo fanno tutti, dalla massaia al grande statista. Superficialità e approssimazione impazzano, a tutti i livelli: la condanna a morte della nostra cultura.»

 A differenza dei nostoi omerici, in cui un uomo solitario affronta la prova per raggiungere lo status di eroe, in Savanna, dove balla la vita il protagonista Madhat viaggia anche col figlio.

«Grazie a te e a Google ora so cosa sono i nostoi! Detto questo, Savanna di fatto costituisce il passaggio di consegne tra l’eroe vecchio e stanco dei primi romanzi, Madhat, e il rampollo Nick. Un soggetto più umano, ricco di contraddizioni e che fatica a valutare bene le persone che incontra, un po’ come me. Invecchio io e crescono loro, ci sta. Chi mi conosce bene, leggendomi, trova riferimenti alla storia mia e della mia famiglia – roba da romanzo, guarda un po’ –, ma sono abile a mischiare tutto.»

I lettori si stanno diradando, le librerie chiudono, la vita di tutti è quotidianamente bombardata da infinite narrazioni bipolari che spesso mistificano la realtà. Come direbbe Balasso, la gente non ne può più di non poterne più. Eppure, i numeri di vendita del tuo libro paiono dire il contrario e, pur essendo un romanzo di fantasia, l’ancoraggio alla verità storica è concreto. Come te lo spieghi?

«Le librerie chiudono anche e soprattutto per colpa del self publishing, strumento a cui io mi sono affidato in toto dopo le prime ovvie delusioni legate alla speranza di seguire canali classici di pubblicazione. Il libro non sparirà mai, per fortuna, e anche tutti i miei romanzi sono reperibili in cartaceo, ma ritengo l’e-book darà una mano a calibrare meglio il mercato moderno, creando nuovi equilibri. È in atto una vera e propria rivoluzione, che io cavalco senza vergogna. Non venderò mai come un libro di cucina, lo so bene, ma va bene comunque. Naturalmente, se il mio libro piace sono contento. Se piace poco, ma alla fine della lettura è stato utile per imparare qualcosa, io sono felice lo stesso.»

Presenterai il tuo libro a Verona a breve?

«Amici comuni non mancheranno di offrirmi degli spazi, vista soprattutto l’attualità dei temi che tratto. Ritengo succederà qualcosa di interessante dopo l’estate. Ti ringrazio davvero di avermi dedicato del tempo e invito tutto sul mio sito Vito Franchini o sulla pagina Facebook “Racconti d’Africa”, dalle quali orchestro questa attività da (quasi) scrittore, anche confrontandomi con tutti quelli che dopo avermi letto mi contattano – non puoi capire che gioia –.»

Vito Franchini (a sinistra) durante una presentazione dei suoi libri