Nella notte in cui festeggiamo la bellissima, giovanissima e brillantissima Nazionale azzurra di Mancini&Evani che spezza le reni alla temibile armata bosniaca, c’è da dare il benvenuto nel Big Show dell’NBA al nostro portacolori Nico Mannion.

Scelto alla 48 (un po’ più in basso di come lo prevedevano alcuni Mock Draft), il rossissimo figlio di Pace finisce ad Oakland. Nella Baia proverà ad imparare il mestiere da un certo Steph Curry e da coach, ex Arizona pure lui, Steve Kerr. Il tutto senza avere addosso il peso di doversi da subito confermare come campione, visto che a Golden State gli occhi di tutti saranno puntati su James Wiseman, lui sì, scelto con la pick n.2.

Non ho alcuna competenza tecnica per giudicare pregi e difetti tecnici di Nico, tantomeno per valutare quale potrebbe essere il suo impatto nell’NBA. Posso solo augurargli la soddisfazione di prendersi pure lui, un giorno, la responsabilità di un tiro decisivo nella gara 7 di una serie di finale. Di certo, se le prestazioni lo sorreggeranno, il mix italiano + cespuglio rosso in testa potrebbe essere un bell’appiglio per i creativi di una lega dove show fa sempre rima con business.

Da italiani, speriamo che in canotta azzurra Mannion ci aiuti a togliere qualche ragnatela dal ricordo ormai incartapecorito di Italia – Lituania del 2004, che comincia ad essere davvero una vita fa. Non subito, ovviamente. Magari aspettando l’aiuto di quel Banchero che in molti già danno come predestinato. I tifosi, a questo punto, sono autorizzati a toccarsi energicamente le parti basse o altri ammennicoli, visto che sono 15 anni che ripetiamo che “il futuro della Nazionale promette bene”.

Nico Mannion (foto: FB Golden State Warriors)

In tutto questo, Gianni Petrucci è appena stato rieletto presidente della Federazione Italiana Pallacanestro; quasi trent’anni al vertice (tra basket, FIGC e CONI) dello sport italiano assieme al buon Malagò. Petrucci è uno che tutti dicono di odiare, “vecchio e senza idee”, che “il basket italiano ha bisogno di aria nuova“, ma alla fine prende il 90% dei voti.  Poi dicono che in Italia non venga premiato il merito. Arcuri docet.

La notte del Draft NBA è anche l’occasione per sfiorare un argomento che, negli scorsi giorni, è stato accostato anche al calcio italiano: il salary cap. Che ogni tanto qualcuno propone come antidoto ad un sistema non più sostenibile  e dove il divario tra grandi e piccoli club sembra destinato ad aumentare sempre più.

L’assocalciatori ha già detto di no ma, al di là di questo, è oggettivamente innegabile che prima di applicare il salary cap al nostro sistema calcio, sarebbe necessario un profondo rinnovamento culturale e societario. Perché se l’idea è semplicemente che “così teniamo bassi gli stipendi dei calciatori”, allora stiamo freschi.

Anzitutto il cap nell’NBA funziona perché si tratta comunque della lega sportiva più importante e più influente al mondo. Dove già solo essere parte dello show garantisce all’atleta e alla società più di quanto potrebbero trovare in altri luoghi del mondo. Poi, è l’approccio stesso allo sport che dovrebbe mutare: negli Usa non è concepibile che una squadra con un monte stipendi di  5 milioni ne sfidi una che ne paga 120. Provate voi a dirlo ai tifosi (ma anche ai dirigenti) della Juve, dell’Inter o del Real Madrid.

Dovremmo poi rivoluzionare totalmente sia la fase formativa del calciatore che il suo approccio al professionismo. Con lo Zaniolo della situazione che non potrà esordire a Roma, ma dovrà prima farsi 4 o 5 anni blindati a Crotone. Oppure poter dire a Lukaku “scusa ma ti ho scambiato col Benevento, sai, devo liberare spazio contrattuale”. E lui, sostanzialmente, muto. Un po’ quello che sta succedendo al buon Al Horford, che col suo super contrattone probabilmente sarà costretto a girare un po’ di laogai dell’NBA per aiutare le franchigie che, in capo a due anni, vorranno avere lo spazio per firmare una giovane stella.

Siamo sicuri di essere pronti?

Io dico di no (my two cents).